Ottobre 2018. La crisi ha imposto un mutamento dei modelli di consumo, rompendo con la logica compulsiva e della dinamica di incremento quantitativo esponenziale dei consumi.
Si consideri che tra 2008 e 2013 si è perso quasi il 6,5% in termini reali del valore della spesa per consumi, e ancora oggi i consumi sono dell’1,5% inferiori a quelli di dieci anni fa.
Valori e volumi del largo consumo confezionato non hanno recuperato lo slancio del passato, e si è anche registrata una ridefinizione della composizione della spesa, con una sorta di polarizzazione indotta dalla dinamica più positiva di alcune tipologie di consumi più sofisticati – e di fatto di prezzo più alto – rispetto ai prodotti competitor suglistessi bisogni: sono i casi dei prodotti rich in (integrale, calcio, ecc.), di quelli contro le intolleranze (poche calorie, senza zucchero o senza sale ecc.), dei prodotti bio o vegani o, ancora, di quelli certificati espressione di italianità. Mentre i consumi complessivi stentano visibilmente, la ri-articolazione porta dentro l’universo dei consumi la dinamica divaricante della società, in cui coesistono opulenza e cinghia stretta.
Allo stadio attuale quindi la neosobrietà è visibilmente arrivata a un bivio, da cui dipende lo sviluppo:
– da un lato, una sorta di tirchieria autoimposta fatta di risparmio impaurito, micro-micragnosità esito dell’incertezza dell’adagio popolare non si sa mai. Si è visto come la grande incertezza porti a generare risparmio per gestire ogni evenienza avversa in cui non si sa bene cosa fare;
– dall’altro, un consumo consapevole che significa più consumo e consumo migliore, un salto quali-quantitativo nei consumi che non mette quantità e qualità una contro l’altra.
Il rapporto con i consumi è stato al centro dei processi di formazione dell’immaginario collettivo, sia nelle fasi di sviluppo che in quelle
di crisi.
E la verità che emerge dalla storia sociale italiana, dal dopoguerra a oggi, è che senza consumi non c’è sviluppo e senza un immaginario collettivo che dia un senso più ampio, e un di più di valore immateriale ai consumi, questi stentano a decollare. Il consumo non è più solo funzione del reddito, che diventa sempre più condizione necessaria ma non sufficiente; i consumi decollano se e quando sono socialmente motivati, perché le persone attribuiscono loro un significato che va oltre lo stesso contenuto merceologico dell’oggetto di consumo. Ecco perché alcune verità elementari sul nesso tra immaginario collettivo e consumi vanno enfatizzate: – che alcuni dei miti degli anni Duemila, dal no logo alla decrescita felice, al neo-pauperismo solidale hanno effetti deprimenti sul benessere individuale e collettivo; – che nell’attuale fase, i consumi che più hanno forza attrattiva sono quelli che più introiettano valore immateriale, perché esprimono identità soggettive, perché sono espressione di valori sentiti, dal salutismo al social-equo, all’ecologia. L’esempio paradigmatico è il cibo, ormai svincolato dalla pura funzionalità e proiettato verso significati simbolici e valoriali che gli danno potenza espansiva inattesa. Il consumo non è solo una categoria economica, non dipende da variabili meramente economiche, è inestricabilmente dipendente da riti e miti collettivi nelle molteplici traduzioni soggettive possibili. Una società dai bassi consumi o senza consumi è una società dagli stati stazionari se non regressivi; e un immaginario impaurito, dominato dall’ansia di proteggersi piuttosto che da una salutare cultura del rischio e dell’edonismo maturo non stimola i consumi, li deprime e con essi deprime lo sviluppo e la crescita della società.
Fonte: Censis-Conad, Miti della crescita