L’opinione di Giacomo Lev Mannheimer su LaVitaInBlu di Auchan

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L’opinione di Giacomo Lev Mannheimer su LaVitaInBlu di Auchan

Febbraio 2018. Giacomo Lev Mannheimer ha pubblicato recentemente con l’Istituto Bruno Leoni un interessante contributo alla lettura delle fake news nel food e alle scorciatoie adottate per indicare se un prodotto è salutistico o meno, riprendendo l’inziativa di Auchan LaVitaInBlu, della quale si è occupato più volte anche RetailWatch.
Ve lo proponiamo.
 
“La crescente rilevanza e frequenza di atti politici atti a orientare il lifestyle delle persone ha fornito, com’è ovvio, forte legittimità ad alcune delle convinzioni più radicate alla base di quegli atti, fra cui quelle esaminate in precedenza. Di conseguenza, in un circolo vizioso tra propaganda commerciale e propaganda politica, aziende e associazioni della società civile hanno fatto proprie le mode alimentari più comuni, traducendone i dettami in strategie commerciali. È il caso, ad esempio, di una nota catena di supermercati, Auchan, che ha recentemente dato il via a una campagna promozionale denominata “La vita in blu”. Scopo del programma è “aiutare i propri clienti a scegliere come mangiare”, attraverso appositi “bollini blu” apposti su alcuni prodotti scelti per le loro caratteristiche e proprietà nutrizionali. Per selezionare i prodotti, Auchan ha confrontato le informazioni riportate sulle confezioni dei prodotti presenti nella sua gamma e ha selezionato per ogni categoria quelli che mostrano “il miglior equilibrio nutrizionale tra le sostanze nutritive che devono essere presenti nella dieta (proteine) e sostanze nutritive la cui assunzione va tenuto sotto controllo (zuccheri, grassi saturi e sale)”. Ovviamente, Auchan chiarisce che “tutti i prodotti offerti in vendita […] sono conformi alle normative vigenti”, e che “l’identificazione sugli scaffali del Prodotto Blu non significa che gli altri prodotti siano meno buoni”; ma come viene effettuata, allora, la selezione? Il regolamento dell’iniziativa spiega che la selezione viene effettuata sulla base delle informazioni riportate sulle etichette dei prodotti, determinando i “prodotti Blu” attraverso tre filtri applicati su una medesima categoria di prodotto. Il primo filtro esclude dalla selezione i prodotti che contengono olio di palma, grassi idrogenati, coloranti azoici, glutammato o OGM. Il secondo filtro prevede una valutazione comparativa tra i diversi prodotti, a seconda della quantità di grassi saturi, zuccheri, sale e proteine contenute. Infine, il terzo filtro viene applicato in caso di ex aequo fra due o più prodotti, valutando ulteriori informazioni dall’etichetta (espressione della dichiarazione nutrizionale per porzione o per unità di consumo, presenza di ulteriori indicazioni nutrizionali, o altro). Il rischio di incorrere in contraddizioni, per sistemi di valutazione così semplici e discrezionali, è elevato. E infatti un’inchiesta della rivista specializzata Il Salvagente, poche settimane dopo l’avvio dell’iniziativa, ne riscontrato più d’una: legate non solo all’opinabilità in astratto, ma anche e soprattutto ai risultati generati dall’utilizzo dei criteri adottati. Anche volendo mettere da parte i dubbi sul rigore metodologico, in ogni caso, è altresì vero che l’iniziativa denota elevata discrezionalità e ambiguità sul piano legale. Ci si potrebbe chiedere, infatti, se e in che misura un esercente commerciale sia responsabile di diffondere etichette di salubrità discrezionali e opinabili dal punto di vista scientifico; e ciò a maggior ragione in quanto le indicazioni presenti sulle etichette apposte non consentono di identificare in modo specifico né quali siano i criteri per l’assegnazione dell’evidenziazione (come nel caso de “La vita in Blu”), né soprattutto come i consumatori dovrebbero interpretare l’etichetta. Basandosi esclusivamente su quest’ultima, peraltro, la selezione di Auchan esclude qualunque esame diretto e indipendente dell’effettiva composizione dei prodotti, con il risultato che le probabilità di rientrare nella selezione aumentano per le aziende capaci di evidenziare e sottolineare il maggior numero di informazioni ‘positive’ sull’etichetta, cioè sulla base delle loro capacità di marketing, più che sull’effettiva qualità dei prodotti.
 
La presunzione fatale
In un contesto, come quello in cui viviamo, nel quale la percezione pubblica di rischi ed emergenze legate al progresso e all’innovazione è sempre più regola e sempre meno eccezione, non stupisce il fatto che la stessa amministrazione pubblica – posta di fronte all’ingrato compito di governare tale percezione – fatichi a stare al passo con i mutamenti tecnologici che ne sono all’origine.
 Dal punto di vista giuridico, l’incertezza scientifica legata all’impatto di tali trasformazioni tecnologiche (si pensi a quello degli organismi geneticamente modificati sulla salute umana) incide sempre più spesso sullo stesso principio di certezza del diritto, laddove è proprio il rapporto tra diritto e scienza ad assumere contorni incerti e mutevoli a causa della velocità dei cambiamenti.
E per questa ragione non può stupire, in questo contesto, che il regolatore pubblico – dovendo assumere decisioni basate su presupposti tecnico-scientifici incerti – si sia spesso affidato a un principio, quello di precauzione, che consente di rimandarle nell’attesa di un quadro scientifico alla base più chiaro.
Il principio di precauzione, definito dal giudice comunitario come “l’obbligo delle autorità competenti di […] prevenire taluni rischi potenziali per la sanità pubblica, per la sicurezza e per l’ambiente facendo prevalere le esigenze connesse alla protezione di tali interessi sugli interessi economici”, è sorto pertanto per rispondere all’esigenza di garantire al decisore pubblico la possibilità di aggiornare le norme sulla base di nozioni tecnico-scientifiche sempre meno stabili nel tempo, prima di applicarle per sindacare la conformità all’ordinamento di un dato comportamento. E già di per sé, anche nel proprio campo di applicazione originario, il principio di precauzione sia espressione di un intrinseco giudizio di disvalore nei confronti delle innovazioni tecnologiche. Sul piano giuridico, tale giudizio si concretizza nell’inversione dell’onere della prova.
 
Contrariamente alla prassi precedente la formalizzazione del principio di precauzione, oggi – all’interno dell’Unione europea – è il soggetto che vuol immettere sul mercato un prodotto, un processo o un’attività a dover provare che questi non sono pericolosi; e non invece gli utilizzatori, i destinatari o le autorità competenti a dover provarne la pericolosità per poterne vietare la commercializzazione. Pertanto, il principio di precauzione introduce una presunzione di potenziale dannosità rispetto a prodotti, processi e attività innovative, ponendo l’onere di dimostrarne l’innocuità a chi intende immetterli sul mercato. Ma come si può provare l’innocuità di un prodotto, di un processo o di un’attività, se non proprio testandola sul mercato, sulla base dell’assenza di prove di ‘colpevolezza’? Tale caratteristica del principio di precauzione è ulteriormente esasperata, nelle sue conseguenze nefaste per una regolamentazione efficiente di prodotti e processi innovativi, dall’estensione del suo campo di applicazione, sia rispetto alle categorie di prodotti e di processi oggetto di valutazione, sia rispetto al numero di attori che lo pongono a fondamento delle proprie decisioni. Dal primo punto di vista, all’originario campo di applicazione del principio di precauzione si sono via via aggiunte nuove aree: dalla condanna di uno Stato membro dell’Unione europea per non aver creato una zona di protezione speciale per una particolare specie di uccelli, nonostante il numero di tali volatili non fosse diminuito, al divieto da parte di una Regione dell’uso di una pratica terapeutica utilizzata su tutto il territorio nazionale; dall’utilizzo di additivi alimentari come vitamine e minerali, alla costruzione del ponte sullo Stretto di Messina.1 Rispetto al secondo punto di vista, ammesso che si debba attribuire alla pubblica amministrazione la titolarità di una funzione esclusiva di cura concreta dell’interesse generale, la complessità e rapidità delle trasformazioni odierne fa sì che l’applicazione del principio di precauzione sia sempre più dilatata fra i diversi soggetti che, a vario titolo, si pongono come detentori di capacità e conoscenze scientifiche sufficienti a orientare e proteggere i consumatori dai rischi che il principio di precauzione stesso dovrebbe evitare.16 Nel caso dell’iniziativa di Auchan, l’utilizzo del principio di precauzione come presupposto dei criteri utilizzati è viziato da entrambe le suddette degenerazioni. Dalla prima, in quanto l’etichettatura di prodotti alimentari ritenuti “sani” non può in alcun caso “prevenire taluni rischi potenziali per la sanità pubblica, per la sicurezza e per l’ambiente”, come dovrebbe fare l’utilizzo del principio di precauzione. E dalla seconda, in quanto una catena di supermercati non è certo il soggetto più adatto a sostituirsi all’autorità pubblica nella valutazione, peraltro attraverso criteri arbitrari e tutt’altro che trasparenti, dell’impatto sulla salute di prodotti alimentari già ritenuti idonei alla commercializzazione. Pertanto, proprio nei limiti di un ordinamento che lasci libere le persone di scegliere responsabilmente cosa consu mare, la salute pubblica e i rischi ad essa connessi dovrebbero rientrare nel novero di valutazioni tecnico-scientifiche e conseguenti norme e indicazioni da parte dello Stato, e non invece diventare strumento di marketing. E se dal punto di vista deontologico non esiste una risposta valida in ogni caso, dal punto di vista legale l’iniziativa di Auchan sembra infatti presentare diverse criticità.
 
La normativa di riferimento per l’Unione europea è il Regolamento 1924/2006, relativo alle indicazioni nutrizionali e sulla salute fornite sui prodotti alimentari, emanato proprio nella consapevolezza dell’alto grado di influenza che possono trasmettere ai consumatori le indicazioni sull’esistenza di un rapporto tra un determinato prodotto alimentare e la loro salute. Il Regolamento stabilisce, per questa ragione, che “le indicazioni nutrizionali o sulla salute non devono essere false, ambigue e fuorvianti”, e che “l’impiego di indicazioni nutrizionali o sulla salute è permesso solo a condizione che […] sia dimostrato che la presenza o l’assenza di una determinata sostanza sia benefica per la salute sulla base di dati scientifici generalmente accettati”. Sono “dati scientifici generalmente accettati” quelli sulla cui base Auchan seleziona i prodotti del suo programma di informazione ai consumatori? Probabilmente
no, se non altro nell’esclusione di sostanze – come l’olio di palma o gli OGM – il cui impatto sulla salute è tutto fuorché “generalmente accettato”, così come nella mancata effettuazione di analisi dirette dei prodotti considerati. Prendere in considerazione indicazioni volontarie presenti sui prodotti, selezionate cioè discrezionalmente dai produttori, esclude infatti già di per sé la scientificità della valutazione.
L’iniziativa potrebbe essere in contrasto anche con il Codice del consumo (D.lgs. 206/2005). L’articolo 3, innanzitutto, stabilisce che le informazioni nutrizionali debbano essere espresse “in modo chiaro e comprensibile, tali da assicurare la consapevolezza del consumatore”.
Non sembra essere questo il caso: se è infatti vero che esistono valori nutrizionali riferibili all’intera popolazione, l’equilibrio nutrizionale della dieta di ciascuno dipende dalle singole necessità fisiologiche e, soprattutto, dall’insieme degli alimenti consumati. Appare arduo, pertanto, operare confronti all’interno di categorie di prodotti diverse utilizzando la medesima metodologia; e infatti i “bollini blu” di Auchan, come dimostra l’inchiesta de Il Salvagente, producono risultati contradditori e talvolta perfino paradossali, rischiando di confondere i consumatori e distorcere la concorrenza.
Gli articoli 20 e 21, comma 1, lett. b) definiscono inoltre come pratiche commerciali scorrette le condotte contrarie alla diligenza professionale, così come quelle idonee a falsare in misura apprezzabile il comportamento economico del consumatore. La condotta posta in essere da Auchan, in questo senso, non sembra essere contraddistinta né dalla cautela richiesta a un operatore del settore alimentare né, per quanto concerne il secondo profilo, dalla necessaria chiarezza informativa rispetto ai vantaggi derivanti dall’acquisto dei prodotti alimentari pubblicizzati.
 
Conclusioni
Chiunque sostenga che un alimento faccia ‘bene’ o ‘male’ dovrebbe farlo con la dovuta precauzione, se non altro perché i fattori da tenere in considerazione per valutarlo sono numerosi ed eterogenei: dalla specifica qualità del prodotto alla frequenza con cui viene consumato, dalle condizioni di salute alla reazione di ciascuno nel consumarlo. Se poi a farlo è il legislatore o un soggetto apparentemente ‘terzo’, la responsabilità è doppia: l’ufficialità – o quantomeno la sua parvenza – degli atti emanati, infatti, può trarre in inganno i consumatori, conducendoli a interpretare come validi in ogni caso suggerimenti che, al contrario, sono nella stragrande maggioranza dei casi limitati a determinate circostanze. È ad esempio il caso del “semaforo” inserito, come etichettatura volontaria, dal governo inglese per classificare in modo semplice i cibi, inducendo i consumatori ad acquistare quelli contrassegnati dal colore verde e a lasciare sullo scaffale, invece, quelli contrassegnati dal semaforo rosso. Peccato che fra questi ultimi rientrassero, solo per fare qualche esempio, l’olio extravergine di oliva e il parmigiano reggiano, a causa dell’elevato contenuto di grassi; mentre beneficiavano del semaforo verde bibite gassate contenenti coloranti ed edulcoranti. Lo stesso si può dire dell’iniziativa di Auchan. Dal punto di vista legale, la troppa discrezionalità e vaghezza dei criteri di scelta adottati rischia di concretizzarsi in pubblicità ingannevole, generando una forma di concorrenza sleale tra i prodotti che hanno ricevuto il bollino e altri, identici o potenzialmente migliori secondo parametri diversi, che non lo hanno ricevuto. Più in generale, il rischio è che il trend culturale in corso – secondo cui il principio di precauzione debba sempre prevalere sulla responsabilità personale – dopo avere influenzato il costume e la regolazione diventi il criterio principale del marketing in campo alimentare. Come in altre circostanze, la regola per garantire regole eque e libertà di adottare scelte consapevoli dovrebbe essere quella di Rashomon: offrire ai consumatori tutte le informazioni in modo chiaro, senza cercare ‘scorciatoie’ utili forse dal punto di vista commerciale, ma fuorvianti da quello scientifico, deontologico, e perfino legale”.

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