I discounter, food e no food, negli ultimi trent’anni hanno garantito risparmi ingenti ai clienti, sbloccando risorse economiche che i consumatori hanno investito altrove. In mancanza di una ripresa dell’economia, però, questo effetto, da solo, basterà per scongiurare un’ondata deflattiva?
Qualche anno fa, Adecco Group ha pubblicato un’infografica che chiarisce come in Italia, tra il 1990 ed il 2020, i salari siano diminuiti del 2.9%. L’Italia è l’unico Paese europeo in cui si è visto un decremento nel dato e risulta perciò estremamente sotto performante rispetto alle altre grandi economie del Continente.
La dinamica salariale negativa del Paese emerge anche riscontrando che, tra il 2008 ed il 2024 i salari reali, ovvero gli stipendi rapportati al costo della vita, si sono abbassati più che in tutti gli altri Paesi del G20.
Uno sguardo alle dinamiche macro
Per decenni ci si è chiesti come mai, vista la sostanziale stasi nei redditi e la diminuzione nel potere d’acquisto, i consumatori potessero comunque permettersi di comprare determinate merceologie o di effettuare frequentemente alcuni acquisti, una volta riservati ad una nicchia di clienti.
La risposta è molto semplice e riguarda una differente distribuzione delle risorse dei singoli consumatori, resa possibile dal lavoro di un manipolo di imprese, orientate ad offrire convenienza ai propri clienti.
Possiamo dire, infatti, che tutte le compagnie nate con l’obiettivo di democratizzare l’accesso ad alcuni prodotti o servizi hanno generato dei risparmi per i consumatori che è stato possibile investire altrove, magari per acquistare tecnologia, abbigliamento di pregio o esperienze di vario genere.
Di quali aziende stiamo parlando?
Nel comparto dei viaggi, si parla delle compagnie low cost come, a solo titolo di esempio, Ryanair che, insieme alle altre, ha abbattuto grandemente i costi dei biglietti aerei.


Nel mondo dell’abbigliamento, sono stati i brand di fast fashion a rendere accessibili tutta una serie di prodotti che, prima, avevano costi significativamente più elevati. In tale segmento la Inditex di Amancio Ortega, con brand quali Zara e Bershka, tra gli altri, ha costruito un vero e proprio impero, assumendo una dimensione internazionale notevole. Ovviamente, non è stata l’unica. Altra catena importante del comparto è, ad esempio, la stessa H&M, anch’essa europea e orientata ad abbattere i prezzi dei capi d’abbigliamento più richiesti.


All’interno del macro-settore no food, gli operatori che hanno abbassato i prezzi medi dei prodotti sono molti. Qui troviamo, ad esempio, tutto il mondo dei DILP Retailer (Despecialized Items with Low Prices) come Action, Flying Tiger, Normal e MINISO, ad esempio, ma anche catene come IKEA e JYSK che si specializzano, invece, nel comparto dell’arredamento.
Oltre ai convenzionali retailer Brick&Mortar, il no food è stato reso più competitivo dall’americana Amazon, leader dell’eCommerce e, più recentemente, da Temu, gigante asiatico del commercio elettronico.


Se guardiamo, infine, il food retail, è chiaro che i discount, a partire dagli anni “90, hanno progressivamente reso più competitivi i prezzi dei prodotti alimentari, colonizzando letteralmente la Penisola. Come abbiamo scritto in un altro articolo, ad esempio, Lidl ha annunciato un investimento da 1.5 miliardi per continuare lo sviluppo di nuovi negozi in tutta l’Italia. Oltre a Lidl, poi, EuroSpin, MD, Todis, In’s, Aldi e molti altri stanno continuando ad investire in questo senso.
Lo spettro della deflazione
Nel presente articolo, teniamo a precisarlo, facciamo solo alcuni esempi di aziende che hanno contribuito a rendere più competitivi i prezzi della merce e dei servizi per consumatori e clienti. All’interno del mercato infatti, sono centinaia le imprese che, nel corso degli anni, si sono ingrandite garantendo risparmi ingenti agli utenti, liberando disponibilità economiche che tali fruitori hanno potuto investire in nuovi prodotti e servizi i quali, altrimenti, sarebbero rimasti riservati a pochi.
Possiamo dire che l’esistenza di queste imprese, ormai diventate spesso e volentieri delle multinazionali da svariati miliardi di fatturato, si sia resa necessaria per sopperire alla mancanza di una buona crescita economica reale, soprattutto in quei Paesi dove tale crescita sia stata particolarmente bassa o inesistente. Ovviamente, l’Italia è un chiaro esempio di quest’ultima circostanza.
Come sarebbe stato possibile, infatti, attivare nuovi consumi se le famiglie non avessero sbloccato risorse economiche, risparmiando dove prima, invece, non riuscivano a farlo?
È anche grazie al contributo di questi risparmi che i consumatori hanno potuto sostenere i rincari degli ultimi 5 anni, dovuti all’ondata inflattiva generata in prima battuta dal Covid e, successivamente, dall’escalation che ha portato alla guerra in Ucraina.
Se ci limitiamo al perimetro food, nel periodo 2020-24 la quota di mercato dei discount è passata, a livello nazionale, dal 20.3% al 23.7%.
Nelle regioni meridionali, tendenzialmente più depresse dal punto di vista economico, la quota del formato di convenienza ha superato di molto la soglia nazionale. Pensiamo alla Sicilia (36.8%), alla Puglia (33.5%), alla Sardegna (35.6%), al Molise (30.4%), alla Basilicata (30.3%), alla Calabria (29.3%) ed all’Abruzzo (29.4%). Fa eccezione la Campania dove la quota, al 20.2%, per varie dinamiche di natura commerciale rimane, al momento, contenuta.
Dunque, in un Paese dove la popolazione invecchia e decresce ed in cui i redditi sono statici o in calo, la macchina del risparmio, formata da player discount food e no-food, ha consentito alle persone di liberare risorse da dedicare a nuovi consumi e, più recentemente, ad un budget utile per sostenere i forti rincari portati dall’inflazione.
Esiste un problema però, ovvero: le dinamiche enunciate continuano ad impattare negativamente sull’economia, tra regressione della popolazione, inflazione e mancata crescita dei redditi reali ma nuovi settori in cui la macchina del risparmio può agire, sostanzialmente, non ce ne sono. Come abbiamo detto, infatti, dal food al no-food fino ai servizi di vario genere, gli operatori discount hanno coperto tutti i mercati efficacemente, consolidandosi in decenni di esperienza.
La domanda da porsi, dunque, è:
“Su quali merceologie cercheranno di risparmiare i consumatori nel prossimo futuro, dovendo comunque continuare a ricercare risorse utili per far fronte ad una condizione economica avversa?“
Se torniamo alla GDO, ci sentiamo di dire che verrà messa fortemente alla prova la capacità dei prodotti di tenere il loro prezzo di vendita a scaffale.
In buona sostanza, quindi, probabilmente vedremo una grande riduzione nei volumi di tutti quegli articoli, posti specialmente nelle fasce mid market, trading-up ed up market, per i quali il cliente riterrà che i prezzi applicati non rispecchino appieno la reale qualità dei prodotti.
Sono queste le referenze che verranno potenzialmente investite da un fenomeno deflattivo che inizierà, con buone probabilità, già nel 2025.
Questa condizione si tradurrà in un mercato sempre più polarizzato, dove vedremo prevalere da un lato i prodotti accessibili (fasce prezzo entry level e trading down) e dall’altro quegli articoli premium (fasce trading up e up market) che il consumatore ritiene irrinunciabili e per i quali, dunque, è e sarà disposto a spendere qualcosa di più.
In tale contesto, sicuramente la quota di mercato dei discount è destinata a crescere ma, nonostante ciò, visto che il formato di convenienza copre solo una parte dei consumi, ovvero circa 3.500 referenze, il fenomeno deflattivo ha buone chance di verificarsi sulla restante parte dell’offerta e, specialmente, per quei prodotti di cui abbiamo parlato qui sopra.
In RetailWatch monitoreremo questo fenomeno al fine di verificarne e commentarne le dinamiche che si rederanno palesi nei prossimi mesi.