La ricchezza? Pensare tangibile e reale

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La ricchezza? Pensare tangibile e reale

NDD: Riprendiamo il capitolo di “Iperfinanza e lavoro produttivo”, Istituto di Alti Studi Strategici e Politici e pubblichiamo il capito di Francesco Pugliese, Ad di Conad
 
In questi anni è facile, quasi doveroso, parlare male delle banche; a mio parere, tuttavia, la distonia che c’è tra finanza e impresa è stata creata da leggi e regolamenti imposti dalla politica, che la politica dovrebbe assumersi la responsabilità di modificare. Il perché è evidente: nonostante la Bce immetta liquidità nel sistema, questa liquidità stenta a raggiungere le imprese perché il sistema bancario deve attenersi ai parametri di Basilea 1,2,3. Si crea così un paradosso in quanto le banche vengono irreggimentate dalla burocrazia, devono attenersi rigidamente a schede e a criteri prestabiliti e non possono corrispondere alle esigenze reali delle imprese italiane, storicamente caratterizzate da una bassa patrimonializzazione. Le banche si trovano ad avere a disposizione molte risorse, ma non le possono erogare alle imprese che ne avrebbero necessità a causa di parametri che devono osservare con rigore.
 
È necessario chiarire che, in questa situazione, paghiamo un vizio di origine. Per il nostro Paese non è facile agire per cambiare le norme e rendere più facile l'accesso al credito in quanto, come nazione, non siamo stati attenti e partecipi nel momento in cui quelle leggi venivano fatte. Viviamo una contraddizione, che è quasi un leitmotiv per l’Italia, quella di chi si trova a fare i conti a cose fatte senza avere più la possibilità di intervenire con efficacia.
 
In ambito bancario si sono pagate anche vistose inefficienze da un punto di vista manageriale, ma è un aspetto che ora appare notevolmente migliorato. Inoltre, anche quando ci fossero persone in grado di valutare il livello di rischio relativo all'erogazione di finanziamenti per favorire, ad esempio, i processi di internazionalizzazione delle imprese, difficilmente si avrebbero cambiamenti perché la questione rimarrebbe quella dei parametri stabiliti da leggi e normative.
 
Le risorse di Conad
Dico questo anche se Conad ha un vantaggio rispetto ad altre imprese, in quanto non ha difficoltà a reperire le risorse che servono per i propri investimenti. Chi, come noi, si colloca abbondantemente sopra i parametri ha un accesso al credito facilitato; ma è una magra consolazione se la ripresa delle realtà produttive che più soffrono la crisi non viene sostenuta perché questo crea una sofferenza globale del sistema, meno investimenti, meno consumi e così via. Purtroppo, in situazioni di emergenza come quelle imposte dalla crisi, si interviene drasticamente mettendo più parametri e vincoli, senza valutare le ripercussioni che si produranno in seguito, quando si vorrà imboccare la strada della ripresa.
 
Insomma, bisognerebbe smettarla di parlarsi addosso l’uno con l’altro e fare sistema. C'è l'impresa che dice “non riesco a recuperare liquidità”, ma non affronta il tema della propria bassa patrimonializzazione; c’è la banca che guarda solo alla bassa patrimonializzazione e non alla bontà di un progetto; la politica sposta il problema dalla propria competenza a quella del presidente dalla Bce Mario Draghi. Anziché fare il gioco delle tre scimmiette per non vedere, sentire e parlare, si dovrebbe esaminare seriamente l'impasse attuale per dare vita a un nuovo modello di relazione e di governance tra sistema bancario, impresa e politica.
 
Norme e regolamenti non sono il solo problema che ci si trova a dovere affrontare; c’è un tema, ben più profondo, che è di carattere culturale. La rincorsa all'arricchimento rapido ha comportato la caduta di tutta una serie di valori. Quando l'Italia degli anni '60 del secolo scorso ha prodotto il boom economico e un benessere diffuso, lo ha fatto scommettendo sulle persone e sul sudore della loro fronte, non utilizzando algoritmi per tentare speculazioni finanziarie che costano l'impegno del momento e offrono un arricchimento (o un impoverimento) veloce.
 
Il prestito sociale
In quegli anni non ci si è affidati a questa pulsione, ma alla forza delle idee, del pensiero, della visione e alla costruzione di qualcosa di tangibile, di reale. Non criminalizzo la finanza, però non condivido l’operato di quelle imprese, anche del mondo cooperativo, che utilizzano strumenti come il prestito sociale e fanno interventi in ambito finanziario che non attengono a quello che è il valore reale di un’impresa. Bisogna tornare a un tempo non lontano quando non era un esercizio accademico ma era basilare definire i valori sottostanti all'impresa perché da quelli scaturiva una visione portatrice di obiettivi a lungo termine.
 
Con l'avvento delle multinazionali e delle quotazioni in borsa questo tipo di valutazione non viene più utilizzata. Si sta affermando un modo di ragionare, una visione in cui tutto il fare è legato al domani, al domani vero e proprio e non, come accadeva anni addietro, al domani aspirazionale, a ciò che si vorrebbe essere nel futuro. La gran parte delle imprese guarda alla finanza come strumento di profitto fine a se stesso, non come strumento per creare qualcosa di solido negli anni a venire.
 
Le aziende che non si collocano in questo trend sono ormai poche: principalmente hanno carattere familiare e guardano con diffidenza all’ingresso in borsa per non essere costrette a sottostare al ricatto di dovere produrre risultati in un tempo brevissimo. Di fatto, quando alla base c’è un progetto a lungo termine si è molto meno portati a vedere la borsa come uno strumento utile per consolidare la propria impresa.
 
Questi mutamenti che potremmo definire, con un termine a volte abusato, antropologici, si assommano alla latitanza della classe borghese, allargando ulteriormente il perimetro e la complessità delle questioni che stiamo trattando.
 
La borghesia in quanto tale non esiste più, non c’è più quella classe che sentiva il dovere, nonché l'obbligo, di adottare uno sguardo di lungo periodo. Un vero e proprio credo, ispiratore di imprenditori illuminati come Olivetti, Barilla, Ferrero, persone che pensavano alla costruzione di un'impresa che durasse nel tempo, oltre il periodo della propria esistenza, creando un valore condiviso dai dipendenti e da tutta la comunità. Questo è un pensiero che nell'intimo appartiene a tutti quanti, dall'operaio al grande manager, in quanto incarna una certezza. Il latore di questi valori era la borghesia, una classe che oggi ha abdicato essendo assente, non tanto fisicamente, quanto come produzione di pensiero.
 
L’impoverimento manageriale
Un tempo esistevano personalità che svolgevano un ruolo di riferimento e creavano vere e proprie scuole a cui ispirarsi, indipendentemente dal luogo in cui si operava. Venendo meno queste figure, si è generata una mancanza di spessore culturale e di occasioni di confronto a cui si è aggiunta l'assenza di managerializzazione all'interno delle imprese. Un fattore che ha generato fenomeni distruttivi, poiché si è erroneamente pensato che le multinazionali potessero supplire a questa funzione, quando spesso i manager sono solo esecutori delle indicazioni di quartieri generali che neppure risiedono in Europa. Di conseguenza, l'impoverimento culturale e manageriale in atto è molto più profondo di ciò che si pensa generalmente. C'è una debolezza che non è solo culturale, ma di capability, con la burocrazia che ha assunto un potere dalle dimensioni enormi, tanto più grande in quanto il livello di presidio decisionale della politica si rivela sempre più inconsistente.
 
Oggi la difesa dell'interesse nazionale viene giocata oltre confine. Ma se ci si sofferma a valutare i profili dei nostri parlamentari e dei nostri componenti delle Commissioni a livello europeo rispetto a quelli degli altri Paesi, mettendo a confronto curricula e presenze, si può rilevare quanto sia profonda la nostra debolezza in termini di qualità, di continuità di presenza, di senso etico e di responsabilità. Non mi piace l'antipolitica, non mi interessa generare disfattismo, mi limito a enunciare un dato di fatto: in Italia manca una classe dirigente imprenditoriale, amministrativa e politica. Gli effetti di questa assenza si stanno riverberando su tutto il Paese rendendolo più debole nella sua interezza.
 
Non abbiamo rappresentanti
La nostra nazione non è credibile in senso lato e, nel concreto, non abbiamo rappresentanti che abbiano una visione del futuro. Si punta sempre più alla gestione del quotidiano senza dotarsi di piani a lungo termine, esibendo un atteggiamento mentale che sarebbe impensabile per una impresa. E, intanto, tutti parlano di crescita: eppure è una visione anacronistica e irreale per il mondo occidentale, utile soltanto per far sognare. In occidente esiste una enorme questione che è quella relativa alla adozione di un nuovo equilibrio nello sviluppo che vedrà la crescita di alcuni settori a discapito di altri.
 
Per quanto riguarda la finanza, il punto chiave è che deve essere uno strumento funzionale per creare un benessere allargato, dall'individuo all'intera comunità, non la leva per un arricchimento che, nella sua dinamica, distoglie il capitale dall'impresa veicolandolo a una crescita di valore fine a se stesso.
 
Se questo modello di pensiero non dovesse affermarsi, il futuro non ci riserverà nulla di buono. Saremo sempre più vittime dello storytelling dell'illusione, del radicarsi di aspirazioni legate all’arricchirsi attraverso manovre speculative e non attraverso la creazione di valore. Il risultato sarebbe devastante: le giovani generazioni si nutrirebbero di una visione illusoria, drogata da un nuovo trip mentale che indurrebbe alla sedazione del pensiero.
 
Eppure, non si può che nutrire la speranza: la costruzione del futuro non può che passare dalla valorizzazione dei giovani, senza abbandonarsi alla retorica della rottamazione di chi è più anziano. Togliere il vecchio per sostituirlo con il giovane non produce cambiamenti positivi in termini di valore, poiché valori e idee vengono prodotti a prescindere dall'età. È  attraverso il mix di diverse componenti generazionali che si possono apportare trasformazioni vitali: il coraggio e l’entusiasmo dei giovani devono interagire con quella competenza e quelle esperienze che non si imparano dai libri, ma dalla vita. Chi semplifica troppo la portata delle questioni e dei temi che sono sul tappeto non fa il bene del Paese, dà vita a paradigmi dannosi, facili da creare, difficili da correggere.
 
Francesco Pugliese, Amministratore Delegato e Direttore Generale Conad
 

 

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