IBC-Centromarca: le PMI reclamano attenzione
Dicembre 2014. IBC (Industrie dei ben di consumo), l’Associazione industrie beni di consumo che riunisce 30 mila imprese che generano nella Gd in Italia un fatturato stimato al consumo di 100 mld di euro ha rilasciato, a cura di Ivo Ferrario, direttore della comunicazione di Centromarca, a cui IBC aderisce, un agile (di n° di pagine) e approfondito (per i contributi e i numeri contenuti) volume con un titolo preciso: L’industria dei beni di consumo in Italia, Contesto e sfide e opportunità.
Gli autori e i contributi
Ivo Ferraio, PR di Centromarca
Roberto Bucaneve, direttore Centro studi di Centromarca
Antonio Calabrò, senior advice cultura Pirelli
Gianpaolo Costantino, senior consultant Iri,
Fedele De Novellis, , Ref Ricerche
Fabio Rea, senior researcher Ipsos
Valentina Ferraris, Ref Ricerche
Namdo Pagnoncelli, presidente Ipsos
Aldo Sutter, presidente IBC
Come possiamo disquisire con un simile parterre?
Numeri e scenari
Probabilmente all’origine del libro c’è la volontà di raccontare il punto di vista sulla storia e sull’attualità dell’economia e dei consumi. Ma par di capire ci sia la voglia di ribadire una presenza che è sempre stata sottaciuta in questi anni: dalle grandi multinazionali, dalla GD, dall’assenza della politica e delle principali istituzioni che hanno a che fare con le PMI del largo consumo.
Dicono Ferrario e Bucaneve, correttamente che l’economia va a cicli, a momenti. Ma la nostra struttura industriale sembra non avere sufficienti energie per affrontare questa crisi che alcuni definiscono più profonda di quella post 1929 e l’economia stenta a ripartire. Dal 2008, primo anno di crisi, abbiamo perso l’8% del reddito nazionale, la spesa delle famiglie è calata del 10%, mentre il reddito disponibile addirittura è diminuito del 13%. Il debito pubblico ha raggiunto il 1312,6% del Pil. E ancora: la pressione fiscale è aumentata del 12,6% nel periodo dato e le imprese hanno dovuto sborsare 110,4 mld di tasse.
Conclusione: l’attuazione delle riforme strutturali non sembra sufficiente a rilanciare l’economia e i settori protetti (energia, trasporti, telecomunicazioni) perseguono le loro tariffe in modo indipendente.
Gianpaolo Costantino invoca una filiera che sappia mettere ordine nelle politiche di prezzo (ndr: dopo vent’anni follie promozionali volute sia dall’IDM-IBC sia dalla GD, altro che risparmi per il consumatore). Osserva Costantino che serve una revisione delle politiche di vendita e della convenienza, oltrechè di coprire i bisogni del consumatore.
Pagnoncelli e Era indicano che il calo dei consumi è dovuto alla volontà delle famiglie di ricostruire il risparmio in un quadro di poca fiducia nel futuro, visto che il risanamento delle finanze pubbliche passa dal peso fiscale che le famiglie devono affrontare.
Di buono c’è, sottolineano i ricercatori di Ipsos che il largo consumo e le sue imprese godono ancora di buona immagine, anche per la capacità di queste nell’esportare il cosiddetto made in Italy.
Fedele De Novellis spiega che la produttività delle PMI italiane e quindi dell’IBC è agli stessi livelli di quelle degli altri paesi europei, nonostante lo stock di capitale stia diminuendo con conseguenze gravi per la salute delle imprese stesse: il calo di produzione è stato del 14% e quello degli occupati del 10%.
Anche qui la nota positiva, sottolinea De Novellis, è che sembra che la qualità dei prodotti stia aumentando per sottrarsi alla mera concorrenza di prezzo e in questo modo molte imprese del largo consumo riescono ad esportare con soddisfazione degli imprenditori, soprattutto nei settori del cosiddetto “Affordable Luxury”.
Conclusione dei ricercatori di Ref: la strada della crescita, obbligata per il nostro paese, è comunque alla portata del nostro paese.
Ovviamente concordiamo con le tesi degli autori di questo volume. Lo ricorda il solo Pagnoncelli, in modo troppo frettoloso, che i consumi (e quindi gli acquisti) stanno cambiando, come gli stili di vita. Ci permettiamo di ricordare che i nuovi acquisti come i nuovi consumi non sono monitorati con sufficienza (e certamente è un’operazione difficile vista la loro ampia ramificazione e mutevolezza).
Tre esempi su tutti: l’autoconsumo, i gruppi di acquisto più o meno organizzati e l’usato. Ovviamente non possono essere rilevati da IRi e Nielsen perché i prodotti che passano in questi canali non sono dotati di codice a barre, ma è possibile che non esistano metodi di raccolta delle informazioni che vadano oltre le stime? Sono decenni che l’ambulantato viene valutato con una quota del 10% sul totale dei consumi. Siete proprio sicuri che questa quota non sia variata negli anni?
E tralasciamo altri canali di vendita perché non siamo ricercatori ma semplici giornalisti.
Le ricerche descritte nel volume curato da Ferrario sono comunque un buon punto di partenza per osservare il cambiamento. Lo sono per autorevolezza e per esaustività.
L’industria dei beni di consumo in Italia, GueriniNext, Novembre 2014, 20€, Cercatelo, ne vale la pena.