Jimmy P. e l’uomo comune. Fino a quando?

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Jimmy P. e l’uomo comune. Fino a quando?

Autore: Giulio Rubinelli per la scheda del film, Luigi Rubinelli per gli abbinamenti food

“Datemi un sogno in cui vivere, perché la realtà mi sta uccidendo.” (Jim Morrison)

Il film di cui parleremo potrebbe potenzialmente segnare l’inizio di un nuovo ciclo cinematografico. Non è difficile immaginare che nuove generazioni di cineasti possano prendere spunto da questa pellicola franco-americana e dalla sua struttura narrativa per raccontare nuovissime storie capaci di condividere la straordinaria quotidianità dei loro personaggi.

È infatti proprio questa la peculiarità di ‘Jimmy P.’ (2013) diretto dal francese Arnaud Desplechin, ovvero la capacità di invertire l’ordine di priorità del linguaggio cinematografico in favore di una piacevolissima essenzialità.
Il messaggio che infatti trapela dai fotogrammi del film di Desplechin è che se il cinema si è fondamentalmente sempre basato sulla narrazione di fatti eccezionali nella vita di gente eccezionale, la sfida di oggi è raccontarne i fatti comuni.
Niente colpi di scena, niente svolte drammatiche inaspettate.
Il film è tratto da un saggio di George Devereux, antropologo francese (considerato il padre della etnopsichiatria) intitolato ‘Psychotherapy of a Plains Indian’.
La trasposizione cinematografica rispecchia fedelmente la natura saggistica del soggetto che, grazie a una regia e una fotografia più che mai al servizio della narrazione, non risulta mai lento o noioso.
Nasce cosi un genere nuovissimo, più che mai inaspettato nell’epoca del digitale più accanito, ovvero il ‘film interessante’, dal quale si impara, si comprende e insieme si studia la natura dell’essere umano. Come se il regista mettesse a parte lo spettatore dei suoi studi sul personaggio in questione.

Jimmy Picard, in seguito ad un incidente avvenutogli durante la Seconda Guerra Mondiale, quando era stazionato in Francia, comincia a soffrire di insostenibili attacchi di emicrania, cecità e perdita dell’udito. Viene mandato nel miglior reparto traumatologico degli Stati Uniti, in un ospedale militare. Quì, dopo svariate analisi, viene ritenuto sano, ma psicolabile. Fondamentalmente Jimmy non riesce a distinguere più la realtà dall’immaginazione, attanagliato dai sogni che lo travolgono ogni notte. Il suo caso viene allora affidato a un antropologo, George Devereux per l’appunto, esperto della cultura indiana Mohave alla quale Jimmy appartiene.

Brillante prova di recitazione per due grandi attori: Benicio del Toro (del Premio Oscar come miglior attore non protagonista consigliamo vivamente ‘Snatch’, ‘Traffic’ e ’21 grammi’) e Mathieu Amalric (tre volte vincitore del Premio Cèsar, ricordiamo ‘Lo scafandro e la farfalla’ e ‘Venere in pelliccia’). A colpi di bravura, i due si destreggiano attraverso due ore tonde (non percepite) di dialoghi affascinanti sulla natura umana senza mai risultare troppo complessi da un lato, nè ridondanti o superficiali dall’altro.

Genere: drammatico, biografico o, come gia’ detto: saggistico-formativo.
Veloctà: e’ un film che non ha bisogno di un motore potente. I dialoghi rispecchiano una rapida salita in bicicletta.
Temperatura: calda. Si soffre insieme al protagonista e si gioisce insieme ad esso del tepore che emanano gli occhi neri di Amalric, che lo scrutano senza sosta.
Qualità: altissima. Un film di raro pregio, sia sotto a un punto di vista tecnico, sia narrativo. L’eccellente recitazione e’ un condimento piu’ che sufficiente per renderlo un must.
Da vedere con: tutti. Ovviamente I più piccoli si perderanno le disquisizioni filosofico-antropologiche, ma non è mai abbastanza presto per mettersi tutti di fronte allo specchio di Desplechin.

Gli abbinamenti food (di Luigi Rubinelli)

Vino: visto che il film è di qualità e va bene per molti consigliamo allora un Barbaresco di Michele Chiarlo, se vi va Asili del 2009, che mi sembra più consono per rapporto qualità prezzo al film commentato da Giulio.

Formaggio:
sarà paradossale ma consigliamo un Grana duro, Parmigiano Reggiano, senza togliere nulla agli altri e, se siete proprio in vena scegliete il 24 mesi, il Barbaresco di Chiarlo ne sarà contento.

Cioccolato: e visto che il vino è piemontese puro suggerisco una tavoletta che ho assaggiato recentemente di Guido Gobino: l’extra bitter. Mmmmm! Questa potete davvero condividerla con chi volete, contrariamente al Barbaresco, a meno che non mangi solo cioccolato bianco (come Giulio).

 

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