Giugno 2020. La guerra commerciale iniziata da Donald Trump meno di due anni fa (nel gennaio 2018 i primi dazi sui pannelli solari) trova le sue origini nell’enorme deficit commerciale che ha continuato a crescere anche e soprattutto grazie all’import
cinese. Di contro, la Cina pratica un’apertura selettiva al commercio internazionale, politica da sempre denunciata dagli Stati Uniti. Tuttavia, la vera miccia del conflitto è stata la pubblicazione del piano “Made in China 2025”, nel quale il colosso asiatico ha deciso di sfidare apertamente la supremazia tecnologica statunitense.
Le misure protezionistiche adottate e in alcuni casi solo sbandierate tra le due super-potenze hanno effetti indiretti per l’andamento delle economie altrettanto negativi a quelli diretti sugli scambi. Secondo stime del FMI, le tensioni commerciali tra Stati
Uniti e Cina sviluppatesi nell’ultimo biennio finiranno col ridurre il livello del PIL globale dello 0,8% nel 2020. Accanto a questo impatto diretto, vi sono gli effetti indiretti che si traducono nel deterioramento del clima di aspettative delle imprese, che hanno nel canale internazionale la loro fondamentale valvola di sviluppo e che reagiscono alle confuse prospettive commerciali rivedendo al ribasso i piani di investimento. Come registra la Conferenza delle Nazioni Unite sul Commercio e lo Sviluppo, dal 2016 gli investimenti diretti all’estero sono crollati, perdendo oltre la metà del valore. Segno questo dell’incertezza e della minor propensione al rischio delle imprese che le spinge a rimanere dentro i propri confini nazionali, anche a fronte di un minor rendimento. Tale processo ha avuto come risultato l’indebolimento delle catene globali del valore e la crescita del commercio intra-regionale, che dopo un decennio di calo, nel 2013 è tornato ad aumentare rappresentando oggi quasi la metà di tutti gli scambi tra Paesi.
Lo scenario
Molti commentatori hanno affermato che tale rallentamento del commercio internazionale potrebbe determinare una nuova fase di stagnazione, se non di recessione, a livello mondiale.
La cosiddetta slowbalization
Se l’effetto complessivo sull’economia mondiale è negativo, lo stesso non si può dire per tutti i Paesi coinvolti in modo indiretto nello scontro. Infatti, l’incapacità sia degli Stati Uniti che della Cina di sostituire totalmente le importazioni mancate con la produzione interna, potrebbe avvantaggiare altri paesi, diventati più competitivi poiché non gravati dalle tariffe.
Secondo la stessa Conferenza delle Nazioni Unite sul Commercio e lo Sviluppo, proprio l’Europa potrebbe trarre i maggiori benefici da questa situazione, riuscendo a dirottare 62,3 miliardi di euro di commercio bilaterale perso tra Stati Uniti e Cina. Oltre il 70% del maggiore commercio internazionale europeo sarà destinato proprio verso il Paese statunitense.
Tuttavia, il rischio di dazi sul settore automotive ed alimentare a danno dell’Europa, Italia compresa, rappresentano una minaccia da non escludere anche nel prossimo futuro e di cui peraltro si vedono le prime avvisaglie.
Oltre al coinvolgimento nel conflitto commerciale, la Cina sta vivendo un momento di rallentamento nei ritmi di crescita della sua economia, determinando di conseguenza un minor volume di scambi commerciali. Tuttavia, il vero cambiamento è nella struttura economica cinese: non più identificabile come fabbrica del Mondo, in quanto lo sviluppo economico e l’aumento del PIL pro capite ha favorito nel Paese un imponente processo di terziarizzazione. I servizi nel 2018 hanno fornito oltre la metà del valore aggiunto del Paese, ne costituivano appena i due quinti vent’anni prima, si è ridotta così la spinta propulsiva del motore cinese agli scambi mondiali. La Cina non solo si espande meno, ma importa anche meno rispetto al passato.
Infine, stiamo vivendo un graduale cambiamento nella composizione
dell’export mondiale. Il processo di terziarizzazione delle economie caratterizza la produzione, ma anche gli scambi commerciali. L’incidenza dei servizi sulle esportazioni mondiali è in rapida ascesa (22,9% è l’incidenza nel 2018 sull’export
mondiale) e questo inevitabilmente ha un effetto “depressivo” sui volumi scambiati. Se a questo aggiungiamo il processo di digitalizzazione, l’avvento dei big data e di Internet è evidente che più che arretramento, le economie mondiali stanno cambiando
e con loro inevitabilmente anche ciò che scambiano nel mercato internazionale.
Fonte: italiani.coop