Anche i margini flettono nell’occhialeria

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Anche i margini flettono nell’occhialeria

Marzo 2013. I retailers del settore dell’occhialeria stanno registrando performances negative sia in termini di volumi che di valore- sia nel comparto “vista” che “sole”- in funzione di due tendenze già consolidate:

1.    il progressivo spostamento dei consumatori dai luxury brands agli home brands per le montature, e

2.    un allungamento del tempi di sostituzione degli occhiali (oramai superiore ai 4 anni).

Mi permetto di semplificare il contesto (evitando fini distinzioni tra lenti e montature, tra occhiali e lenti a contatto, e via dicendo) ed evidenziare quelli che a mio avviso sono due forti elementi di debolezza:

1.    la indistintività dell’offerta commerciale tra le diverse insegne, e la conseguente forte dipendenza dall’industria dell’occhiale che, come sappiamo, è fortemente concentrata nelle mani di alcuni players nazionali;

2.    l’aumento della pressione promozionale per sostenere i volumi di vendita.

In merito al primo punto, non vi è dubbio che gli aspetti della moda e del brand siano ancora molto forti, visto che per molti consumatori l’occhiale è un accessorio fortemente personale, che parla dello stile o del modo di essere di chi lo indossa: anche gli occhiali da vista infatti da mero strumento correttivo di difetti oculistici, sono oramai divenuti uno shopping goods. Tale considerazione è ancor più valida nell’ambito degli occhiali da sole, ove l’acquisto presenta caratteri più impulsivi e la comunicazione pubblicitaria riveste un ruolo ancora più importante.

Ma se davvero l’acquisto di un occhiale branded è per il consumatore un modo per entrare nel mondo dei luxury goods, mi chiedo, provocatoriamente, per quale motivo i retailers non investano nella shopping experience del cliente, che risulta invece estremamente povera e indistinta nelle principali catene. Senza con questo negare la componente “tecnica” e “medica” del mondo dell’occhiale, i negozi dovrebbe superare l’aspetto normalmente freddo e ambulatoriale, ispirandosi a brand del settore moda: l’acquisto di un occhiale (correttivo o meno che sia) potrebbe essere decisamente più emozionale, vivace, interessante, sociale. Per fare questo i retailers dovrebbero iniziare dall’analisi della shopping journey del cliente (multicanale) e disegnare percorsi flessibili di avvicinamento al punto vendita fisico, con servizi di personalizzazione delle offerte, ed enfatizzando la componente social (condivisione) dell’acquisto.

Anche gli assortimenti dovrebbero essere più narrati e meno caotici: per quanto alcuni negozi abbiano provato ad organizzare l’offerta inventandosi cluster sinceramente opinabili (penso alla suddivisione in “stile”, “eleganza”, “colori” e via dicendo di uno dei leader del settore) la sensazione che vive il cliente è quella spesso dello spaesamento e dell’eccesso di offerta, che, come insegna il Prof.Lugli in altri contesti, può portare alla paralisi, e all’ansia (e quindi al non consumo). E’ prioritario migliorare la rappresentazione della scelta.

Pensiamo anche al mondo junior: un altro target cui molti retailers paiono assolutamente indifferenti, mentre molto si potrebbe fare per rendere meno “traumatica” l’esperienza di acquisto per un bambino “costretto” a utilizzare fin da piccolo gli odiati occhiali, e minimizzare la sindrome “Quattrocchi”. Potrebbe divenire un elemento di distinzione per il primo player che vi si applicasse con interesse.

Anziché perseguire queste strade noto invece che, con risultati per certi versi paradossali, più insegne esibiscono orgogliosamente sulle proprie vetrine la coccarda di negozio o retailer dell’anno! Senza mettere in alcun modo in dubbio la qualità delle metodologie di ricerca degli enti promotori di tali awards, mi chiedo provocatoriamente a che servano tali premi, se non appunto ad apporre vetrofanie sulle vetrine dei propri negozi, visto che spesso anche lo stesso personale non sa spiegare cosa si celi dietro questo o quel riconoscimento, né quale ne sia la rilevanza per il cliente.

Venendo al secondo punto il rischio è che- come già capitato nella GDO- il progressivo aumento della pressione promozionale porterà non tanto a un incremento dei volumi e dei valori, ma a una riduzione dei margini e a un’alterazione del comportamento d’acquisto dei clienti, trasformati sempre più in soggetti price sensitive, con l’effetto di vanificare gli interventi effettuati sul primo punto.

Nel contesto attuale, in cui il mondo della distribuzione dell’occhiale  è ancora fortemente frammentato tra negozi indipendenti, associati e catene, penso sia evidente come ad avvantaggiarsi di questa situazione siano solo i produttori e non certo i retailers, né, in seconda istanza, i consumatori.

Almeno finché con un’azione di lobbying gli attori del settore non riusciranno ad imporre una regolamentazione che  preveda un “tagliando” obbligatorio ai propri occhiali correttivi (per quanto gli italiani paiano non prestare molta attenzione alla cura delle proprie lenti, dobbiamo sempre ricordare che si tratta di presidi medici) così da ridurre i tempi di sostituzione (almeno) delle lenti, ritengo che la strada obbligata sia quella di lavorare sugli assortimenti (e la loro architettura e narrazione) e sulla costruzione di una shopping experience più appagante e distintiva, che parta da un ridisegno fisico del punto vendita e da un salto di qualità nel marketing (anche sul fronte della relazione e fidelizzazione del cliente).

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