I conti di Dispensa Emilia sono in miglioramento ma, a fine anno, c’è ancora una perdita di bilancio. Analizziamo i numeri dell’azienda commentando il più ampio scenario dei modelli di business associati alla ristorazione.
Dispensa Emilia nasce a Casalecchio di Reno nel 2004 per iniziativa del fondatore Alfiero Fucelli che, assieme a due soci, decise di impostare un business che oggi offre tigelle, gnocco fritto e pasta preparata al momento.
Il brand ne ha fatta di strada dal 2004 e attualmente conta 50 ristoranti disseminati tra Centro e Nord Italia. Dal 2018, poi, il brand fa capo al fondo Investindustrial di Andrea Bonomi.
La ristorazione, però, come modello di business, non è facile da far diventare profittevole. È per questo, infatti, che durante l’evento Market Overview, tenutosi a Roma il 29 novembre scorso, il Direttore di RetaiWatch ha parlato di come, per gli imprenditori, diversificare aprendo attività di ristorazione possa essere rischioso.
Come vanno i numeri di Dispensa Emilia?
La Vaimo SpA, società che gestisce Dispensa Emilia, nel 2023 presenta ricavi per 50.35 milioni di euro, in forte crescita (+39.4%) rispetto ai 36.13 milioni del 2022.
Il margine sui consumi è quello tipico della ristorazione ed è, dunque, molto buono, pari al 70.9% dei ricavi.
I costi del personale ammontano a 19 milioni di euro circa, ovvero il 37.8% dei ricavi.
Altre due voci molto rilevanti in termini di incidenza sul conto economico sono il costo sostenuto per i servizi, pari al 15.4% dei ricavi e la sezione ammortamenti/svalutazioni che pesa per il 14.6% dei ricavi.
La perdita, a fine anno, ammonta a -1.41 milioni di euro, in miglioramento rispetto ai -3.6 milioni del 2022.
Si tratta, quindi, di un business che sebbene cresca in termini di cifra d’affari presenta le pecche tipiche della ristorazione. Il costo del lavoro, in questo mestiere, si aggira solitamente intorno al 30% dei ricavi. Il fatto che qui arrivi quasi al 38% significa che, come modello, ci sono molte attività di preparazione time consuming che, probabilmente, andrebbero ottimizzate.
Gli ammortamenti e svalutazioni pesano per oltre 7.3 milioni di euro sul conto economico. Questo segnala che lo sviluppo della cifra d’affari è estremamente oneroso perché comporta ingenti investimenti.
Sicuramente, l’aumento del margine nel 2023 rispetto al 2022, anno in cui era pari al 68.5% dei ricavi, ed il corrispondente miglioramento dell’ultima linea, seppure l’azienda rimanga in perdita, fanno ben sperare per il futuro ma la strada per la profittabilità non è scontata.
Come accelerare sulla strada verso il profitto?
Ad oggi, circa un terzo di ciò che viene servito presso i ristoranti Dispensa Emilia è preparato nell’unità produttiva dell’azienda a Modena che conta su 1.500 mq di laboratorio. Tale spazio verrà ampliato ad oltre 3.000 mq per accompagnare il piano di sviluppo.
Sicuramente, vendere i propri prodotti con il marchio “Dispensa Emilia” anche presso rivenditori terzi come le più note catene GDO, consente di sviluppare ricavi ai quali non corrispondono investimenti particolarmente onerosi, necessari invece quando si aprono nuovi ristoranti.
Dedicarsi, quindi, in modo strutturato e intenso, a questo canale di vendita, esattamente come fanno altri grandi player, sia direttamente che indirettamente, può aiutare l’azienda ad arrivare in tempi brevi alla produzione di profitto.
Alcune merceologie, infatti, come, tra le altre, la pasta fresca o il cioccolato, si prestano particolarmente alla verticalizzazione, ovvero quel processo per il quale la stessa azienda si occupa della produzione, della vendita presso i rivenditori (GDO) ed anche presso i consumatori, attraverso una propria rete di store/ristoranti. È il caso di molte realtà come, per citarne due, Giovanni Rana e Venchi.
Quali sono i drammi condivisi da tutta la ristorazione?
Questo qui sopra è un piccolo estratto di una presentazione mostrata dal nostro Direttore presso l’evento Market Overview tenutosi in Roma il 29 novembre scorso.
Il primo punto debole della ristorazione, come dicevamo, è l’elevata incidenza del costo del lavoro. A volte, in format commerciali che prevedono una standardizzazione estrema dei processi, tale costo può essere ridotto notevolmente. Pensiamo ad esempio a McDonald’s e a come la famosa catena americana abbia introdotto, ormai da diversi anni, i totem informatici per agevolare il processo di ordine, di fatto limitando grandemente l’apporto del personale.
Laddove però l’offerta sia meno standardizzata, risulta più difficile automatizzare i processi. Solitamente, il costo del lavoro, nella ristorazione, rappresenta dal 25% al 35% circa dei ricavi, con punte che arrivano quasi al 40%.
Il secondo punto debole è la concorrenza fluida. Mentre se apriamo un supermercato, i clienti nelle immediate vicinanze dello store tenderanno a preferire tale luogo ad altri per fare la spesa a parità di qualità, quantomeno per la comodità, nella ristorazione ciò non accade o succede molto meno spesso. Infatti, di solito, quando si va a mangiare fuori, la distanza è un problema relativo. Non è necessario rimanere a 5/600 metri da casa, ma si possono tranquillamente percorrere più chilometri per raggiungere un luogo in particolare.
Se, quindi, per un supermercato i concorrenti sono negozi tendenzialmente vicini, per un ristorante la concorrenza si estende a tutti coloro che offrono da mangiare in un raggio d’azione estremamente ampio.
Mentre, poi, è piuttosto comune frequentare lo stesso supermercato a livello settimanale, è altrettanto insolito andare al medesimo ristorante così spesso. La clientela della ristorazione, in sostanza, è generalmente legata al prodotto, non al luogo. Si può, ad esempio, preferire la pasta o l’hamburger ma approvvigionarsi di tali prodotti in locali di volta in volta diversi e questo non giova alle imprese che, invece, puntano a fidelizzare il cliente per effettuare vendite continuative.
Il terzo punto debole, infine, riguarda la fluttuazione delle vendite dovuta alle mode temporanee. Identificare quali trend sono solo di passaggio, infatti, è estremamente complesso. Il sushi, il poké, il kebab, il gyros, il fusion brasiliano/giapponese, il cinese, il tex mex, l’american bakery etc. sono tutte tendenze sulle quali si sono costruiti business non sempre di successo. In alcuni casi, infatti, abbiamo assistito a fallimenti eclatanti di ristoranti organizzati in catena.
In RetailWatch continueremo a monitorare il caso di Dispensa Emilia per verificare quali strategie verranno messe in campo al fine di produrre profitto in un mondo, quello della ristorazione, dove fare utili non è affatto scontato.