Il ceto medio si sente davvero classe operaia

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Il ceto medio si sente davvero classe operaia
 

Ottobre 2015. Le ricerche, anche di istituti titolati, non amano approfondire questo gap che si sta sempre più allargando: uno dei risultati della crisi 2008-2014 è lo slittamento di parte del ceto medio verso il basso. Di più: il sentiment di parte del ceto medio è di appartenere sempre di più al ceto operaio. Come si capisce le conseguenze sociali e sui consumi sono impattanti. Lo rileva il Rapporto Coop sui consumi 2015, curato da Ancc-Coop, Nielsen e Ref Ricerche.


L’Italia che sta risalendo la china dopo la lunga recessione è un Paese diverso e che si sente diverso.
Gli italiani hanno mutato in profondità la visione che hanno maturato di se stessi e del loro ruolo nella società. L’ascensore sociale è bloccato, l’impressione diffusa è che sia necessario frenare, al contrario, la discesa verso il basso.
Un recente studio di Confindustria ha evidenziato che in Italia il figlio di un operaio di età compresa tra i 30 ed i 50 anni ha il 62% di probabilità di essere a sua volta operaio (negli anni Novanta era al 50%).
Come a dire che il futuro appare abbastanza segnato.
Allo stesso modo, il processo di “cetomedizzazione” che aveva segnato gli anni Novanta si è fatalmente interrotto, lasciando spazio ad una “operaizzazione” della società di oggi. Secondo l’Osservatorio sul capitale sociale di Demos e Coop, oltre la metà degli italiani (il 52%) si colloca nei “ceti popolari” o nella “classe operaia”, mentre solo il 42% ritiene di appartenere alla “classe media”.
 
È sorprendente rilevare come, prima che la recessione sconvolgesse gli equilibri sociali ed economici della nostra società, la situazione risultasse esattamente rovesciata: il 53% degli italiani si definiva “ceto medio”, mentre il 40% “classe operaia”.
Evidenza ancora più peculiare, i dati illustrano un ribaltamento, nelle prospettive di tutte le categorie professionali, a partire da quelle figure che erano tradizionalmente incasellate nella piccola borghesia, quali lavoratori autonomi e imprenditori individuali: prima della crisi sei su dieci si sentivano parte della classa media, oggi l’incidenza è scesa a poco più della metà del totale.
La percezione di arretramento sociale riguarda soprattutto le donne che hanno subito gli effetti più duri della crisi soprattutto in ambito lavorativo. Non è un caso che in Italia le casalinghe sono circa 8 milioni di persone, di cui 700 mila nella fascia d’età degli under 35: più dei due terzi di esse, infatti, oggi si posiziona fra i ceti popolari, a fronte di un più modesto 50% all’inizio della crisi.
A questo proposito, mentre in Italia ci si interroga sull’opportunità di prevedere una retribuzione ed una pensione per le mamme che svolgono i lavori domestici, prendendo spunto da un recente studio condotto negli Stati Uniti è possibile provare a quantificare il valore economico dell’attività domestica di una casalinga: considerando una media settimanale di 14 ore in cucina (a 10 euro l’ora), 8 ore da autista (altri 8 euro all’ora), ulteriori 13 ore di ripetizioni, 7 ore nelle vesti di psicologa per appianare e chiarire litigi familiari ed oltre 10 in quelle di colf, si arriva ad uno stipendio virtuale di oltre 5 mila euro al mese, più di 62 mila euro all’anno.
 

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