Il futuro è nelle piccole industrie indipendenti?Il caso Albertsons.

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Albertsons rifiuta l’omologazione assortimentale assicurandosi, con un colpo da maestro, i prodotti dei migliori piccoli brand indipendenti. Da cosa nasce l’esigenza commerciale di puntare sulle piccole produzioni?

Albertsons negli Stati Uniti è un colosso del mondo dei supermercati, un monolite che opera con 2.267 negozi ed un portafoglio di ben 20 insegne differenti. Parliamo di un retailer che solo nel terzo trimestre 2024 ha ammassato circa 18.8 miliardi di dollari di vendite.

Prima di approfondire però quale strategia stia adottando Albertsons per caratterizzare i propri store in un mondo commerciale che, se non si sta attenti, rischia di protendere verso l’omologazione, occorre fare una premessa sulle piccole industrie indipendenti.

Quando Oscar Farinetti creò Eataly, ormai nel lontano 2002, diede spazio sugli scaffali della nuova iniziativa a moltissimi piccoli produttori, con il valido supporto di Slow Food.

Questa mossa fece scalpore in un mondo retail dominato da grandi industrie che, facendo presa sui consumatori attraverso ingenti investimenti pubblicitari, potevano e possono assicurare alle aziende distributrici un certo volume di vendite.

Eataly, in un certo senso, puntava a dimostrare che il valore non risiede solo in marchi noti, commercializzati spesso da società multinazionali, ma anche nelle piccole produzioni che, proprio muovendo volumi contenuti, volendo possono consentirsi di utilizzare solo materie prime con caratteristiche qualitative precise e ricercate.

Quand’è che il piccolo è anche buono?

Accomunare tutte le piccole industrie, dicendo che dal piccolo e dall’artigiano nasce certamente un prodotto buono, significa purtroppo generalizzare e, quindi, cadere in un inganno concettuale.

Esistono infatti delle innovazioni prodotto che richiedono forti investimenti per essere portare a termine, investimenti che una piccola impresa non può certo sostenere ma che le grandi industrie effettuano continuamente. Come disse un noto imprenditore: “Una startup non può costruire un Boeing 747 in un garage“.

L’IDM ha poi la possibilità di fare ricerche di mercato, di portare i propri prodotti nelle case dei consumatori con il marketing e di garantire volumi al retail che acquista volentieri i prodotti proposti. Per una piccola industria indipendente competere contro questi colossi con prodotti che non sfruttano i vantaggi derivati dalla dimensione contenuta delle produzioni può tradursi in un gioco a perdere.

Quando, invece, un’industria indipendente si specializza in produzioni dove la piccola dimensione è necessaria al fine di garantire una certa qualità, allora anche i prodotti da essa commercializzati diventano appetibili per la GDO che, come nel caso di Albertsons, cerca sempre opportunità per arricchire e differenziare i propri assortimenti.

Se i bassi volumi sono figli di materie prime ricercate, processi più lunghi perché qualitativi e lavorazioni artigianali ad alto valore aggiunto, allora una piccola industria può sicuramente aspirare a ricoprire il ruolo che le spetta all’interno di una categoria merceologica.

Ovviamente, parliamo di bassi volumi e non bassissimi. È necessario, infatti, che le produzioni siano comunque costanti e omogenee per garantire un adeguato livello di servizio al retail.

La paura di chi compra e il caso Albertsons

I compratori delle aziende retail, ovvero i buyer o product manager, a seconda della dicitura che si decide di utilizzare, spesso sono scettici sull’inserimento di referenze in assortimento che mancano di uno storico consolidato di vendita.

In alcuni casi limite, gli uffici acquisto si rifiutano di valutare l’inserimento di nuove referenze prodotte da piccoli fornitori, limitandosi a registrare i prodotti più venduti nel proprio mercato di riferimento per inserirli automaticamente in assortimento.

Ciò accade perché i buyer vogliono evitare di stoccare merce che si possa rivelare solo un’immobilizzazione di liquidità presso il magazzino centrale senza ritorni in termini di vendite. Questo soprattutto quando gran parte della rete vendita è in affiliazione e, quindi, il product manager ha ancora meno libertà di manovra nel gestire l’output presso in negozi dove l’ultima parola la dice il singolo imprenditore socio o affiliato.

Se qualche cliente ha l’impressione che alcuni supermercati siano diventati praticamente uguali, nonostante battano insegne diverse, è proprio perché inserire in assortimento solo prodotti noti e ben distribuiti sul territorio, significa rinunciare a scoprire nuove referenze potenzialmente premianti in termini di vendite, precludendosi l’opportunità di differenziarsi dalla concorrenza.

Albertsons questo lo sa benissimo e, infatti, è alla ricerca di brand emergenti di food, beverage e pet che abbiano vendite pari ad almeno 3 milioni di dollari e non superiori a 10 milioni. Attraverso l’ Innovation Launchpad Competition, un contest organizzato dall’azienda, cinquanta produttori candidati vengono scelti per presentare i propri marchi ad un panel di giudici. Ai primi tre sul podio vengono poi erogati premi per un totale di 300.000 dollari, oltre a dei servizi omaggio.

I prodotti delle aziende vincitrici sono infine valutati dal retailer per comprendere in quali negozi e presso quali insegne del gruppo possano ottenere spazio a scaffale.

La sfida del futuro

Ovviamente, Albertsons cerca aziende che fatturino almeno 3 milioni di dollari perché l’America non è l’Italia, in termini di volumi mobilitati. Da noi, infatti, questa soglia potrebbe essere anche inferiore, sebbene non di molto. Il punto però è che il retailer ha bisogno di far emergere i produttori di valore perché non tutto ciò che è notevole è anche noto e viceversa.

In Italia e non solo, le aziende retail intenzionate a trovare prodotti eccezionali che possano davvero creare valore per i propri clienti spesso si dotano della figura dello scouter.

In un mondo in cui i buyer non hanno sempre il tempo di esplorare cosa offre il mercato, vessati come sono da costanti appuntamenti con l’IDM, utili a rinegoziare le condizioni e rivedere i listini, lo scouter è un professionista che si occupa di scandagliare il territorio per scovare piccoli e medi produttori, magari ancora poco distribuiti, che però offrono referenze altamente qualitative e potenzialmente fidelizzanti. In altre parole, prodotti che portano il consumatore a frequentare più volentieri il supermercato che li tratta in assortimento rispetto ad altri luoghi d’acquisto.

Avere buyer e scouter competenti che sappiano riconoscere le piccole produzioni di valore diventa sempre più prioritario in uno scenario dove l’omologazione degli assortimenti rischia di spostare solo sul prezzo la competizione tra aziende retail.

In RetailWatch monitoreremo sempre lo sviluppo delle piccole produzioni di valore e di quelle aziende retail che, cogliendone il potenziale, decidono di supportarle acquisendo, nel mentre, un grande vantaggio competitivo.

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