Il corretto mix assortimentale nasce da un delicato equilibrio tra ampiezza dell’offerta e razionalizzazione dello scaffale. Una ricerca di Nielsen.
Negli ultimi decenni la distribuzione moderna aveva notevolmente ampliato la propria offerta, con l’obiettivo di rispondere alle esigenze di una clientela evoluta e sempre più informata, ma cadendo talvolta nell’errore di presentare scaffali troppo affollati e confusi. Per non parlare dei costi di gestione, che crescevano in modo esponenziale. Tra il 2008 e il 2009, alcune grandi insegne avviarono perciò una politica di razionalizzazione degli assortimenti, riducendo il numero di referenze a scaffale, per agevolare la shopping experience del consumatore da un lato e ridurre dall’altro la complessità gestionale. Anche così però i risultati non erano del tutto soddisfacenti: Walmart, per esempio, verificò il rischio di una significativa riduzione del fatturato e dei livelli di soddisfazione dei propri clienti.
Nel 2010 nuova inversione di rotta: gli assortimenti riprendono ad ampliarsi sia nei Paesi in pieno sviluppo, come Cina e Messico, sia negli Stati Uniti, dove la crisi ha infierito molto, sia in Germania e in Francia, dove la crisi è stata meno mordente, e anche in Italia, dove in 57 casi su 100 si è potuta verificare un’evidente correlazione tra aumento delle referenze e incremento dei fatturati, mentre in altri 24 su 100 la riduzione dell’offerta ha comportato una netta flessione delle vendite.
Variazione delle vendite e dell’assortimento
Distribuzione italiana – Progr.Giugno 2011 vs 2010
Dunque, per ottimizzare l’offerta, la costruzione dello scaffale deve basarsi su un mix equilibrato che riduca le cannibalizzazioni tra prodotti e generi valore, facendo crescere i fatturati. All’interno di ogni categoria merceologica, il processo di razionalizzazione richiede un’accurata valutazione di ciò che è effettivamente ridondante e ciò che invece è assolutamente distintivo, perché aggiunge valore e risponde a richieste reali del consumatore, generalmente poco disposto a ripiegare su un sostitutivo del prodotto preferito.
Da uno studio condotto negli ipermercati e nei supermercati italiani sono emerse alcune interessanti macro-indicazioni. Nell’ipermercato il consumatore, pesantemente colpito dalla crisi economica, ricerca innanzitutto la convenienza (così i prodotti che generano maggiore fatturato alla categoria sono quelli di primo prezzo, segnale evidente che il discount è un concorrente diretto delle grandi superfici). Il supermercato, dove si fa la spesa giorno per giorno, risponde invece a una logica diversa, condizionata dalla sua prossimità e dal suo target (un’utenza mediamente più anziana, che spesso non usa l’auto). Naturalmente anche qui la convenienza è importante (e viene identificata perlopiù nella marca privata di basso prezzo), ma il risultato più interessante è la possibilità di generare vendite incrementali anche nella fascia premium, di elevata qualità e prezzo alto: il super si ritaglia una propria specificità assortimentale rispetto all’iper, polarizzando la propria offerta tra un primo prezzo a marchio privato e il top di gamma dell’industria, connotandosi anche come vetrina preferenziale per le innovazioni di prodotto. La regola deve però essere declinata per ogni categoria di prodotto: vale per i biscotti, i fazzoletti di carta, il cibo per cani, ma non per la pasta di semola o lo yogurt, dove il consumatore cerca il prodotto top di gamma anche all’ipermercato. Dunque, il corretto mix assortimentale nasce da un equilibrio dinamico molto delicato, frutto di accurate valutazioni del rapporto tra domanda e offerta.
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