La fedeltà alla marca (sia IDM sia GDO) è in diminuzione

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La fedeltà alla marca (sia IDM sia GDO) è in diminuzione

Febbraio 2016. Lo sappiamo (parafrasando PPP, ne abbiamo un certo numero di prove): il sapere digitale, la crisi economica, le trasformazioni distributive, le nuove forme di uso condiviso hanno rivoluzionato i consumi e il nostro approccio ad essi.
 
Consumatore indefinibile
Ma in questo cambiamento il modo di rappresentare il consumatore – nei media, nella pubblicità, nella ricerca, nei saperi aziendali esperti, nei discorsi della cultura popolare – è rimasto lo stesso. Pur essendo chiaro che si tratta di una figura sempre meno definibile in maniera netta, univoca, coerente. E anzi, piena di contraddizioni, non detti, soggettività e debolezze. Una figura, in una parola, sempre più umana e lontana da quell’uomo economico che ha campeggiato a lungo nell’immaginario e nelle pratiche del marketing aziendale.
Già il termine “consumatore” appare riduttivo, perché consumare è una delle tante attività che le persone fanno ogni giorno (tra l’altro, certamente, non la più importante). Muoversi, lavorare, dormire, mangiare, lavarsi, parlare, giocare. La stessa idea sottesa alla parola – la consunzione, il dilapidamento, il logoramento degli oggetti – è anacronistica in un’epoca storica in cui i servizi hanno parte crescente nei processi dello scambio economico. E ci accorgiamo di tutti i limiti e dell’obsolescenza di questa parola nel momento in cui riconosciamo quanta parte abbiano nella nostra vita quotidiana, anche nei suoi aspetti economici e materiali, il concetto di scambio, di reciprocità, di gratuità.
“Consumatore” è perciò un esempio di quel riduzionismo concettuale cui ci ha abituato il pensiero ortodosso economico (anche nelle sue varianti sofisticate: dalle analisi soggettiviste, all’approccio rational choice , alle teorie delle preferenze rivelate) dalla cui messa in discussione non potremmo che trarre beneficio.
 
Cosa vuol dire consumare?
E ogni giorno di più si rivela semplicistica e in parte datata non solo la figura del consumatore, ma anche la stessa opposizione tra produzione e consumo, come espressione di mondi distanti e sfere autonome che solo sul mercato troverebbero un terreno comune e un momento d’incontro.
Ascoltare e condividere playlist musicali via streaming è atto di consume oppure un momento produttivo, che crea e mette in circolo valore?
Usare un servizio di mobilità condivisa è un comportamento economico individuale oppure un’agire che fa parte di un processo di costruzione collettiva di un bene sociale e simbolico, prima ancora che economico?
Personalizzare, sulla base del gusto e delle preferenze individuali, del contest e della destinazione d’uso, un oggetto dopo averlo acquistato, è un agire di consumo oppure un’affermazione originale di individualità che nel momento stesso in cui prende forma altera e sposta il baricentro di significato del prodotto?
 
La crescita progressiva e l’affermarsi di comportamenti di mercato “crowdsourced”, l’innovazione e la co-creazione che nasce dal coinvolgimento dei destinatari d’uso (e dall’intelligenza collettiva, possiamo aggiungere), sono dunque fenomeni che impongono una rilettura delle categorie, semantiche e concettuali, con cui possiamo leggere il nostro rapporto coi consumi.
Riflettere sul consumo e sul consumatore, nella loro interezza e complessità, significa allora in qualche modo mettere in discussione l’idea di target  a cui siamo abituati: Target come bersaglio (facile o difficile) cui indirizzare (direttamente o indirettamente) gli sforzi, le attenzioni, i contenuti, le promesse (evocate ed evocabili) di beni, servizi, esperienze.
Un target che – per analogia a quella impostazione fordista mutuata nella pubblicità e nei consumi dal mondo della produzione (pensiamo a H. Ford stesso, quando sosteneva che gli acquirenti dei propri veicoli avrebbero potuto acquistare un modello T di qualsiasi colore, purché nero) – viene normalmente ricondotto a pochi tratti: l’età, il genere, la classe sociale, più raramente qualche generic inclinazione attitudinale. Riducendo così a una stentata e approssimativa sommatoria di particelle elementari l’integrità e unicità della persona che sta dietro l’attore sociale ed economico.
Eppure, è ormai chiaro che dietro quei tratti – un adolescente del Mezzogiorno, una responsabile acquisti casalinga del Nord tra i 25 e i 44 anni, un Senior benestante, un Colletto Bianco metropolitano – non si nasconde una comunità omogenea di persone, con biografie, interessi e inclinazioni condivise. Bensì una collettività fittizia, fatta di soggettività distanti ed estranee, incapace di dar luogo a quella comunalità di intenti e di azioni nelle scelte e logiche di consumo che alimenta e giustifica i presupposti alla base dell’identificazione stessa.
 
Ripensare all’idea di target
Ripensare l’idea di target vuol dire allora lavorare su un doppio binario. Da una parte significa comprenderne, accettarne (e valorizzarne) la dimensione culturale e storica (e non naturale). Avere consapevolezza che non esistono categorie generali (target) a priori ma solo etichette e modi di classificazione definiti socialmente (e in qualche modo dunque arbitrari).
Dall’altra significa procedere – nel fare ricerca e nell’insight dei consumi – verso l’idea di target che non sono più definiti o definibili a priori secondo criteri di identificazione astratti, universalistici o predefiniti. Ma si definiscono in modalità sempre più mobili, «situate», idiosincratiche, legate al contesto e alla situazione specifica.
A questa ridefinizione dell’idea di target contribuiscono cambiamenti economici, demografici, tecnologici, sociali e culturali veri e propri. L’orientamento all’autonomia e all’affermazione individuale; la continua ricerca di stimoli, novità, suggestioni nel rapporto con la cultura materiale; Il desiderio di coinvolgimento e gratificazione di tipo estetico, sensoriale, esperienziale; la diffusione della cultura digitale nelle sue varie forme…. Trasformazioni profonde e trasversali, che mettono in crisi l’idea stessa di ruolo (di genere, anagrafico, occupazionale ecc) come insieme coeso, portatore di doveri, possibilità e aspettative specifiche e distintive. E che in questo modo compromettono l’idea dei target tradizionali come risultato di un processo naturale e spontaneo di categorizzazione: mostrando invece come essere uomini o donne, giovani o anziani, élite o segmenti marginali, utilizzatori di una marca o di un’altra non sia solo (o non tanto) un dato di fatto – che si lega a comportamenti e aspettative empiricamente osservabili, rilevabili e duraturi nel tempo – quanto, in misura crescente, il cristallizzarsi (in qualche modo arbitrario) di un processo fluido, mobile e in divenire.
 
Che senso ha parlare di giovani, adulti, anziani quando i processi di cambiamento producono rimescolamenti generazionali continui di valori, attese, comportamenti e consumi? Se lo sport (praticato) non è più prerogativa giovanile, la crescita del potere d’acquisto riguarda i segmenti più senior e l’impegno e la partecipazione da cifra giovanile diventano tratti e caratteri dell’età matura, occorre semplicemente aggiornare le nostra mappe mentali, la nostra conoscenza di questi target (cosa che va peraltro fatta) oppure è anche il caso di chiedersi se categorie come l’età e il ciclo di vita non stiano portando a termine la capacità di dirci qualcosa sui mercati e più in generale sul mondo che cambia intorno a noi?
E ancora, l’appartenenza di classe o di ceto restano chiavi di lettura efficaci di consumi e orientamenti relativi oppure – in un’epoca di voli low cost che sparpagliano ceti popolari in giro per il mondo e di felpe o tshirt (Zuckerberg docet) che diventano divise di lavoro delle upper class iperscolarizzate attorno al globo – sono piuttosto residui di un passato in cui indagare i consumi specifici e le differenze
nella struttura di spesa della classe operaia, dei ceti medi e delle Élites si giustificava a partire da un’unitarietà e omogeneità di atteggiamenti e comportamenti oggi in gran parte dissolta?
 
Fonte: Findomestic

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