Le Store brand nel non food tengono?

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Le Store brand nel non food tengono?

Maggio 2013. Il tipo di impulsi trasmesso dalla moda e dal progresso tecnologico sul consumatore ostacola la diffusione del brand distributivo nelle categorie no food.

Se si considera che la propensione delle catene per diversificare gli assortimenti a marchio proprio su comparti che non siano grocery è minima, per comprensibili ragioni di costo in rapporto ai benefici attesi, si inquadra un aspetto gravido di considerazioni.

La questione affiora anche nell’indagine promossa dal Dipartimento di Economia dell’Universita’ di Parma, attraverso il lavoro di Martina Pini.
 
Antonello Vilardi

 


UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI PARMA
DIPARTIMENTO DI ECONOMIA
Corso di Laurea Magistrale in Trade Marketing e Strategie commerciali

La Marca Commerciale nel Non Food


Autore: Martina Pini
Relatore: Chiar.mo Prof. Edoardo Fornari – A.A. 2010/2011

Con l’evoluzione dei bisogni del consumatore, della struttura del mercato e dei sistemi distributivi, anche il branding distributivo deve svilupparsi e porsi in modo proattivo nell’attuale contesto di cambiamento.

La presente tesi di ricerca, partendo da un quadro definitorio fornito dai principali contributi della letteratura riguardanti questo argomento (Fornari, Glemet e Mira), si propone di analizzare uno dei possibili sentieri di sviluppo per la private label di un distributore grocery che voglia diventare un vero e proprio brand, ossia la diversificazione assortimentale nelle categorie problematiche del non food.

In questo lavoro, Tesco (e la distribuzione inglese in generale) è stato assunto come punto di riferimento per la sua competenza, innovazione e capacità di costruire un enorme stock di fiducia presso i propri consumatori, che è stato trasferito, di volta in volta, nelle varie diversificazioni che il brand si è apprestato a compiere. Gli esempi di best in class della distribuzione inglese, dove la store brand indentity arriva a coincidere con la store identity (Burt e Sparks, 2002), potrebbero rappresentare gli ideali punti di arrivo della distribuzione italiana, frammentata ed arretrata, ma con alcune insegne dal grande potenziale distributivo.

Dall’excursus sul co-packing e sulle leve di marketing manovrabili dal distributore in favore della propria marca commerciale (assortimento, pricing, comunicazione, merchandising) è emersa una situazione italiana eterogenea dal punto di vista territoriale e merceologico, con dati medi che mostrano però un costante ritardo del branding distributivo italiano.

Si sono analizzati anche i comportamenti d’acquisto e di consumo del mercato finale nei confronti delle marche commerciali, a livello internazionale e nazionale. L’acquirente tipo che mostra fedeltà alle private label è il responsabile d’acquisto di famiglie solitamente abbastanza numerose e con un reddito di fascia media. Analizzando le percezioni dei consumatori sui prodotti di marca commerciale, è stata confermata la situazione di arretratezza, rispetto al panorama europeo, delle insegne italiane, i cui marchi sono ancora percepiti sostanzialmente come dei me too. Anche in Italia esiste una correlazione diretta tra il livello di

fedeltà dei consumatori di un’insegna ed il grado di penetrazione delle vendite della marca commerciale della stessa insegna, sebbene con valori sensibilmente inferiori rispetto al resto dell’Europa.

Poiché è rara la bibliografia sulla diversificazione delle private label dal grocery alle categorie non alimentari, per analizzare questo sentiero di sviluppo già intrapreso dalle insegne inglesi ed auspicato per quelle italiane, si è usato lo strumento della ricerca empirica con interviste al management di Coop per comprendere la dimensione strategica ed operativa distributiva e con questionari sottoposti direttamente ai consumatori in tre ipermercati Coop di Parma e Reggio Emilia nei mesi di Aprile e Maggio 2011 per quanto riguarda i comportamenti di acquisto e di consumo.

In quest’ultima parte, la scelta è stata quella di focalizzarsi sull’insegna italiana Coop, leader nella distribuzione e nel branding distributivo in Italia, perché nel suo DNA, così come nei risultati della ricerca effettuata, mostra un elevato potenziale per potersi imporre con la sua marca commerciale anche nelle categorie più problematiche, sfruttando le esperienze già intraprese dai benchmark di riferimento, le competenze del suo management e la larga fiducia di cui gode presso i consumatori italiani.

Dalla sintesi delle indagini svolte è apparso evidente che la categoria in cui Coop sta avendo maggiori difficoltà, anche a causa di una situazione dei consumi non favorevole, è l’abbigliamento. Per questo motivo si è dedicato l’ultimo capitolo a cercare di capirne le cause e le problematicità, descrivendone il contesto attuale, proponendo delle possibili soluzioni sulla scia delle best practice inglesi (Tesco ed Asda) e sviluppando la case history di Joyful, la linea di private label di Coop (in partnership con Olimpias) nell’abbigliamento.

Sebbene il percorso descritto in questo lavoro possa risultare difficoltoso e non privo di rischi, le migliori insegne italiane, fra cui Coop, possono e devono ambire ad un processo di diversificazione assortimentale che arrivi nel non food e nei servizi, per rafforzare l’insegna stessa e potersi sviluppare in modo dinamico come marchi indipendenti con una propria brand equity al pari delle marche industriali: “There is nothing wrong with change, if it is in the right direction” (Winston Churchill).

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