Lucchi-GFK: degenerazione del potere e i rimedi

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Lucchi-GFK: degenerazione del potere e i rimedi

Settembre 2014. A questo mondo ci sono tre grandi poteri: quello “sociale”, quello “politico” e quello “economico-finanziario”.
Quello più importante, e che dovrebbe portare con sé i veri “obiettivi” della vita, è quello “sociale”: la gente nasce a questo mondo, ha un credito di qualche decina d’anni di vita, ha un corpo ed una mente in origine sostanzialmente sani, ed ha diritto – se il mondo fosse giusto – di vivere in modo decoroso la propria esistenza. Perché il mondo è della gente, e l’obiettivo vero è il loro benessere.
Per perseguire questi scopi esistono gli altri due poteri, che devono avere un “ruolo strumentale” rispetto all’obiettivo di cui sopra:

  • quello “politico” che ha facoltà (ovvero autorità) di agire per fini collettivi – attraverso la definizione di regole obbligatorie per tutti – con l’obiettivo di consentire lo sviluppo della vita nel Paese nel suo insieme, nel rispetto della democrazia e della giustizia sociale, e di una visione di medio-lungo periodo, perseguendo la coesione – fondamentale perché un Paese possa essere definito tale – e l’evitamento degli squilibri sociali, pur nel totale riconoscimento di premi al merito.
  • quello “economico” che deve produrre beni e servizi per consentire una quota parte di benessere della gente; esiste anche la componente “finanziaria”, che nella visione sana della vita dovrebbe avere però il solo scopo di aiutare finanziariamente il potere economico a raggiungere i suoi obiettivi .
Tutto ciò in teoria. Nella pratica – soprattutto in Italia – alcuni poteri non si sono mai creati (ad esempio quello “sociale”), altri sono nati degenerati e non hanno mai assunto il ruolo nobile che dovrebbero contraddistinguerli (quello “politico”), altri si sono degenerati nel tempo (quello “economico-finanziario”).
Esaminiamo rapidamente le tre situazioni.
 
L’ASSENZA DEL POTERE SOCIALE (IN ITALIA)
Il potere sociale storicamente non è mai esistito in Italia, semplicemente perché l’Italia non si è mai configurata come Paese: non esiste un “Popolo Italiano”, cosciente di esserlo, con una colleganza gli uni con gli altri tipica di una entità omogenea di cui ci si sente proprietari. L’Italia non è un’entità coesa e non si è mai operato perché lo potesse diventare; il senso di appartenenza è debolissimo; l’orgoglio è inesistente; la cosa pubblica non è minimamente sentita come propria a cominciare dal rispetto del territorio; il rispetto delle regole non esiste, perché non sentendosi protetti dallo Stato e percependo il tutto come degenerato ed ingiusto, ognuno fa gli interessi propri, preferibilmente “fregando” lo Stato, e possibilmente anche tutti gli altri; l’etica – il rispetto degli altri che ci stanno attorno – è inesistente.
La differenza fra gli Italiani e gli europei che ci stanno sopra, da questo punto di vista, è evidentissima: è sufficiente osservare come è diversamente curato il territorio pubblico, o come diversamente vengono rispettate le regole del vivere sociale (se in UK faccio osservazione ad uno che parcheggia male, questo risponde “mi scusi, provvedo subito”; e lo fa. Se faccio analoga osservazione in Italia, la risposta più probabile è “si faccia i … suoi”).
Il perché di tutto questo? Certamente in parte la nostra storia è responsabile; ed ancora di più lo sono i Governi che si sono succeduti, che invece di “fare l’Italia e gli Italiani”, hanno fatto altro, come vedremo.
Si è fatto cenno alla storia che abbiamo alle spalle. E’ certo che abbia forti responsabilità. Dalla caduta dell’Impero romano, e per quasi 1500 anni, la Penisola Italica è stata territorio di dominio straniero e di sfruttamento. Gli Italiani nei secoli sono cresciuti nella contrapposizione verso i dominatori; lo Stato è sempre stato l’avversario cui opporsi, cui sottrarsi. Ne sono nate due conseguenze: la non identificazione con lo Stato di appartenenza (presa di distanza che probabilmente è entrata nel nostro DNA), e l’arte di trovarsi da solo – creativamente – delle soluzioni, con quel poco che si aveva, sviluppando soprattutto le abilità sovrastrutturali (il “bello” ed il “buono”).
In definitiva in Italia non è mai esistito un popolo omogeneo e coeso di Italiani, ma tanti singoli individui che “creativamente” si sono arrangiati come hanno potuto.
Ciò fino a pochi anni fa. Rinviamo alle prossime pagine per gli accadimenti più recenti.
 
L’ETERNA DEGENERAZIONE DEL POTERE POLITICO
Il Potere Politico – soprattutto in Italia – è sempre stato caratterizzato da degenerazione. Un tempo all’ingresso dei Palazzi di Potere esisteva un cartello che più o meno recitava: “se entri in questo palazzo, devi lasciare fuori i tuoi interessi privati”. In realtà tutta la nostra storia è caratterizzata dal contrario, e tutti i danni ed i guai che sempre di più si pagano hanno la stessa origine: la parte politica che di volta in volta ha comandato, ha sempre fatto solo i propri interessi di parte, con attenzione solo al brevissimo periodo. Del Paese, della creazione del Paese in senso vero, e delle prospettive di medio-lungo, non se ne è mai interessato nessuno. Le totalmente inutili infrastrutture create, e gli infiniti percorsi burocratici – che stiamo pagando per i costi insopportabili e per i tempi paralizzanti – sono la drammatica eredità degli interessi di parte.
L’Italia purtroppo non è un Paese, perché “la coesione” – condizione base per l’esistenza di un Paese –  non esiste nei progetti di chi gestisce il potere politico. Infatti non c’è gestione, né volontà di rimedio, degli evidentissimi guai; inoltre non c’è visione. Si mettono apparenti “pezze” di breve periodo, per cercare di rattoppare le falle, ma si agisce senza un progetto.
Forse è difficile – in Italia – fare diversamente. Come si diceva poco sopra, negli ultimi 1500 anni la Penisola Italica è stata solo terra di conquista, terra da sfruttare. Forse questo modo di gestire solo i propri interessi attraverso la gestione del potere è nella nostra cultura.
 
LA NUOVA DEGENERAZIONE DEL POTERE ECONOMICO-FINANZIARIO
La degenerazione del potere economico-finanziario è più recente: si è sviluppata negli ultimi 20 anni. Su questo tema ci si è soffermati più volte nel recente passato, ma vale comunque la pena riassumere gli accadimenti più importanti.
 
Il senso del tutto è il seguente:
  • fino a 20 anni fa il mondo economico produttivo produceva valore sotto la guida di imprenditori che sviluppavano strategie di medio lungo periodo, con veri obiettivi di sostenibilità economica: produrre valore crescente nel tempo, con visioni di lungo periodo, investendo risorse finanziarie, senza attendersi ritorni nel breve. Ed il mondo finanziario – giustamente –  era al servizio dell’economia
  • oggi il mondo economico produttivo non ha più l’imprenditore, ma è affidato ai managers, i quali sono condizionati dal mercato finanziario ed indotti a privilegiare il brevissimo periodo se non vogliono compromettere la propria posizione personale. Quindi non più costruzione di valore, ma sfruttamento di valore nel breve; con conseguenze – come vedremo – drammatiche
  • il mondo finanziario si è molto allontanato dal mondo economico, e tende a privilegiare un nuovo ruolo, che non è più quello di fare finanza a supporto dell’economia produttiva, ma di fare finanza su finanza, sfruttando le opportunità di brevissimo in logica meramente speculativa.
Riassumiamo in modo schematico i vari passaggi.
La caduta del Muro di Berlino ha dato l’innesco del tutto, con l’avvio della Globalizzazione che ha creato problemi decisamente seri, innanzitutto all’Offerta (le Aziende), ed in seguito alla Domanda (la Gente).
Relativamente all’Offerta si rilevano problemi differenti – comunque critici – per piccole e grandi imprese: per le piccole imprese il problema è prevalentemente italiano, per le grandi riguarda la maggioranza dei Paesi occidentali.
Le piccole imprese (in Italia ce ne sono 4 milioni), che hanno sempre vissuto operando fondamentalmente solo sul mercato interno, prima della globalizzazione si erano di fatto spartite il mercato, senza eccesso di competizione. L’essere in competizione non è mai stata condizione di vita. Con la Globalizzazione le piccole imprese, soprattutto in Italia, si sono trovate per la prima volta sullo stesso mercato competitors non contrastabili con l’attuale produzione: dai nuovi concorrenti venivano offerti prodotti tutto sommato simili, ma a prezzi estremamente più bassi.
Le strategie per reagire – in teoria – avrebbero potuto essere due:
  • adottare soluzioni per ridurre i costi – innovando i processi – per poter abbattere i prezzi e quindi reggere la concorrenza; ma margini di interventi nell’attuale organizzazione erano inesistenti, ed investimenti per ottimalizzare i processi non erano consentiti (assenza di soldi, e banche estremamente caute)
  • L’alternativa avrebbe dovuto consistere nell’evitamento della concorrenza, facendo altro; cioè innovando  i prodotti, creando nuovo valore aggiunto, possibilmente non imitabile. Ma le risorse finanziarie non esistevano: le imprese erano (e sono) troppo piccole.
 
Quindi l’assenza di risorse finanziarie ha impedito loro di trovare soluzioni, innovando processi e/o prodotti. La logica del “diventare più grandi” mediante aggregazione – fusioni, accorpamenti di varia natura – cioè l’unica soluzione che avrebbe procurato di fatto risorse finanziarie, non è stata favorita da alcuno, tantomeno dai Governi che si sono succeduti. Cosicché la cessazione di impresa è sempre di più vista come triste ma unica soluzione del problema.
 
Anche le grandi imprese si sono trovate a dover sopportare una competizione nuova a prezzi decisamente più contenuti. E anch’esse avrebbero potuto adottare entrambe le strategie:
  1. rimanere in competizione, ma riorganizzando il modo di produrre per sopportare costi più bassi, possibilmente investendo sui processi di produzione
  2. e/o innovare e differenziare i prodotti, per uscire dalla competizione.
 
Nei fatti hanno adottato solo la prima strategia, e solo in parte: nella grande maggioranza la scelta è andata per continuare a proporre i soliti prodotti, adottando “soluzioni per ridurre il più possibile i costi”, senza però investire per ottimalizzare i processi.
In particolare le grandi – e soprattutto le multinazionali – hanno gestito in un certo modo il problema ai fini di una contrazione dei costi: hanno aggregato il più possibile, per godere dei più alti margini possibili di economie di scala. Ciò a tutti i livelli: centralizzando le decisioni, i sistemi organizzativi, le produzioni, standardizzando il più possibile, ed omogeneizzando anche tutti i sistemi di relazione con la Domanda.
La strategia è stata quindi solo questa. L’adozione anche dell’altra strategia – cioè fare investimenti per uscire dalla competizione, innovando (prodotti, ma anche processi) – non è stata adottata perché di fatto è stata impedita da nuovi accadimenti anch’essi innescati dalla Globalizzazione.  Accadimenti – peraltro – con drammatiche conseguenze.
Mettiamo in ordine la sequenza temporale di questi accadimenti:
  • Prima della Globalizzazione – come si diceva – tutte le grandi aziende (peraltro quasi sempre dotate di un imprenditore) operavano con strategie di medio-lungo periodo; anche il mercato finanziario aveva questo tipo di cultura, e di fatto premiava le aziende con strategie medio-lunghe interessanti
  • Dopo la Globalizzazione, e con progressione impressionante, si è scoperto che produrre all’est e vendere all’ovest, al di là di una qualsiasi strategia, produceva nel brevissimo utili altissimi. Il “breve” ha cominciato a condizionare tutti, anche se poi negli anni la delocalizzazione ha avuto qualche “ripensamento”. In particolare – il “breve” – è diventato un criterio guida del mercato finanziario, al di là poi di come l’utile veniva realizzato: si era deciso di premiare le aziende che  producevano utili alti nel brevissimo (nell’anno, nel trimestre), non importa se ottenuti con strategie poi economicamente sostenibili o meno nel medio-lungo. La grandissima maggioranza delle grandi aziende senza più l’imprenditore, hanno avuto il management condizionato da questo dictat: fare utili i più alti possibili, subito!
  • Per fare utili alti, è stato quindi necessario ridurre i costi, tutti i costi. Non erano sufficienti le ottimalizzazioni ottenute centralizzando il tutto, bisognava ridurre anche tutti gli altri possibili costi. Quindi tutti gli investimenti per innovare prodotti e processi si sono ridotti o azzerati
  • Ciò ha portato le aziende a differenziarsi sempre di meno, con la conseguenza che più o meno tutte le aziende si sono trovate in competizione diretta. Tutte facevano le stesse cose. E come sappiamo, per vivere in competizione bisogna abbattere i prezzi, sempre di più
  • Ma se si abbattono i prezzi si riducono i margini
  • Ma i margini non si possono abbassare, altrimenti il mercato finanziario “reagisce male”; quindi per non mortificare i margini si devono ulteriormente ridurre i costi
  • Ma i costi che hanno più consistenza sono quelli del personale: quindi mobilità! Piuttosto che evitamento di assunzioni di giovani, pre-pensionamenti, … Il fatto che tra gli stakeholders più importanti della azienda ci siano i dipendenti, ed anzi che l’azienda di fatto sia composta dall’insieme dei dipendenti, comincia a non importare più…
  • Ma se la gente perde il lavoro, compera di meno, e se compera di meno le aziende vendono di meno, si riducono gli utili, bisogna abbassare i costi, bisogna fare dell’altra mobilità….. Tutto ciò si chiama semplicemente spirale al collasso”!
 
La minima considerazione aggiuntiva è che finché si è in mano alla speculazione finanziaria, che opera per definizione sul breve periodo, non c’è soluzione.
Giusto per completare il quadro dei danni della globalizzazione, e della conseguente esplosione del breve periodo, rimane da citare il fatto che anche la finanza si è messa a speculare sul brevissimo, non facendo più “finanza per l’economia”, ma finanza per la finanza”. Sono nati i mutui “subprime”, cioè prestiti senza che condizioni di minima garanzia venissero rispettate. Cioè prestiti ad altissimo rischio. E questo “ingrediente” finanziario è stato utilizzato per creare anche altri prodotti finanziari derivati. Se agli attori dei mercati finanziari – a quei tempi – venivano poste questioni sulla sostenibilità temporale di quei prodotti, la risposta era del tutto evasiva, ed andava interpretata in questo senso: il problema del futuro di questi prodotti non è mio. Diagnosticare gli accadimenti che si sono poi verificati non è poi così difficile: c’è stato un “effetto domino” drammatico, perché i mutui subprime erano stati concessi alla parte della popolazione più sfortunata, quella cioè che per prima è stata coinvolta in problemi di riduzione costi (mobilità), e si è trovata senza soldi… (°)
 
A CHE PUNTO SIAMO OGGI, IN ITALIA (MA NON SOLO)
Oggi, soprattutto in Italia, si sta vivendo in balia del sistema finanziario, che ha un’incredibile forza sovranazionale, e che non teme di certo alcun potere. Certamente non teme il potere sociale italiano (non esistente), ma di certo nemmeno il potere politico Italiano, poco consistente, senza progetto, e troppo “piccolo”: l’Italia, in ogni caso, nel sistema mondiale è troppo piccola per avere ruoli condizionanti. Quindi si subisce.
E sarà un percorso sempre più arduo, soprattutto se lo si affronta senza visione di lungo periodo, e senza strategie operative.
Sarà sempre più arduo, perché il Capitalismo e la Finanza – per i quali “il fare soldi” non è un metodo (quale dovrebbe essere) ma è un obiettivo – si svilupperanno sempre di più. E le condizioni perché ciò avvenga ci sono tutte.
Infatti, mentre nei segmenti più avanzati del mondo occidentale i comportamenti stanno avendo un viraggio verso una sorta di post-consumismo, dove sta contando più l’”essere” che l’”avere”, dove l’individuo è conscio della propria individualità/peculiarità, e dove i comportamenti tendono a privilegiare non il possesso, ma il “senso”, i valori sovrastrutturali: il significato, la cultura, la storia la tradizione, le emozioni, le esperienze, …, nel resto del mondo le cose stanno molto diversamente.
Oltre il 75% della popolazione mondiale in realtà non ha ancora soddisfatto i bisogni basici dell’”avere”: i cosiddetti nuovi paesi (Cina, India, Russia, Brasile, …; in futuro tutta l’Africa) hanno un desiderio di “avere” di massa che è impressionante. E per il Capitalismo e per la Finanza l’avere a disposizione delle masse (come fossero delle “cose” e non degli individui) che servono per produrre e consumare senza limiti, non fa che rafforzare la loro potenza. E tutto questo scenario, con le prospettive di “denaro infinito” davanti, offre alla Finanza ed al Capitalismo un potere non attaccabile.
Tutto ciò, forse per molti decenni, caratterizzerà il mare magnum in cui dovremo imparare a vivere.
Vivere in questo contesto sarà molto difficile per tutto il mondo evoluto occidentale. Certamente sarà ancora più difficile per l’Italia, perché non ha una infrastruttura basica ben impostata su cui avviare delle strategie.
Certo, si può pensare che la qualità della vita è altro rispetto ai consumi e al PIL. Quando si fanno queste constatazioni viene sempre in mente il discorso fatto da R. Kennedy nel marzo del 1968: “Non troveremo mai un fine per la nazione né una nostra personale soddisfazione nel mero perseguimento del benessere economico… Il  PIL  comprende anche l'inquinamento  dell'aria… Non tiene conto della salute… dell’educazione o della gioia… Non comprende la bellezza …l'intelligenza …l'onestà … Non tiene conto né della giustizia…né dell'equità….Il PIL non misura il nostro coraggio, la nostra saggezza, la nostra conoscenza… Misura tutto, in breve, eccetto ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta….». Come tutti sappiamo, agli inizi di giugno dello stesso anno R. Kennedy fu ucciso. E a quei tempi, Capitalismo e Finanza non avevano nemmeno lontanamente la forza che hanno ora.
Certo, si può pensare che l’”economia del bene comune” sia un deciso passo avanti, dopo gli estremi passati del comunismo, e gli estremi attuali del capitalismo. Si tratta certamente di un processo interessante alla ricerca di sinergie con approcci analoghi come l’economia solidale, l’economia post-crescita, l’economia sociale, il movimento dei beni di proprietà comuni, …
Ma la potenza del sistema Capitalistico e della Finanza è tale da pensare che oggi, innanzitutto, bisogna trovare delle soluzioni che ci consentono di vivere al meglio anche in questa situazione (pur senza interrompere gli investimenti su nuove soluzioni di differente equilibrio).
 
QUALI VISIONI, E QUALI STRATEGIE PORRE IN ATTO
Per fare ragionamenti propositivi parrebbe necessario prendere in considerazioni tutte le variabili fondamentali del sistema in cui si vive: il contesto in cui ci troveremo a vivere sarà talmente complesso, che in fase di progetto di soluzioni non ci si può permettere di trascurare alcuna variabile.
Iniziamo a fare ragionamenti, ripassando le “quattro regole della vita”, che dovranno obbligatoriamente essere rispettate se si vorranno avere chances, soprattutto nello sviluppo del business internazionale.
Nota: precisiamo subito che lo sviluppo del business internazionale ha importanza prioritaria e strategica per l’Italia, perché dovrà avere un ruolo di innesco nel rilancio dell’economia del nostro Paese, stante il fatto che la domanda interna è per ora molto carente, e non può avere potere innescante. Si continua a parlare di carenza di occupazione, dimenticando che se non esiste domanda le imprese non possono assumere. Quindi bisogna creare domanda; e se momentaneamente all’interno non c’è, bisogna puntare su quella estera, con riferimento soprattutto a quei mercati che in questo momento hanno molta spinta.
Prima di proporre soluzioni concrete, ripassiamo le quattro regole da rispettare, per ora viste nella loro basicità. Poi vedremo quali implicazioni di minimo dovranno comportare.
Una vita sana, che voglia adottare prospettive di continuità – cioè di “vita che prosegue”, e non di “morte” – dovrebbe avere almeno i seguenti ingredienti:
  1. Bisogna essere sani di corpo (le componenti strutturali devono essere di qualità)
  2. Bisogna essere sani di mente (quindi anche le componenti sovrastrutturali devono essere di qualità)
  3. Si deve adottare un percorso di sviluppo e rigenerazione continua (si deve crescere, in tutti i sensi, ed in continuazione; altrimenti si è fuori dalla vita)
  4. Bisogna fare in modo di favorire – con tutte le migliori soluzioni possibili – la relazione con gli altri: la relazione è la condizione per la prosecuzione della vita. Senza relazione, la vita – che è la cosa più bella – si interrompe.
Queste quattro regole sono basilari per tutte le forme di vita, che si stia parlando di un Individuo, piuttosto che di una Impresa, piuttosto che di un Paese. Essendo del tutto intuibile il caso dell’Individuo, non ce ne occupiamo.
Facciamo invece esempi – pur semplicistici – per una Impresa e per un Paese.
Iniziamo da una Impresa (di successo). I quattro “ingredienti” di cui sopra hanno il seguente contenuto:
  1. I prodotti devono essere di qualità intrinseca (componenti strutturali) almeno buona, in termini oggettivi e non solo di percezione
  2. Tutte le componenti sovrastrutturali devono essere interessanti: ci si sta riferendo al concetto che regge il prodotto, piuttosto che alla cura di realizzazione, piuttosto che alla sua forma, piuttosto che alla sua confezione, …
Possibilmente, per vivere bene sul mercato ed evitare eccessive competizioni di prezzo, bisognerebbe che gli ingredienti A. e B. fossero tali da consentire la realizzazione di prodotti molto desiderabili e possibilmente unici sul mercato. Certo, tutto ciò richiede investimenti ed approcci imprenditoriali (cultura dell’investimento in logiche di costruzione del valore nel medio termine). Ci si ricordi, comunque, che riuscire ad uscire dalla competizione, e quindi non avere eccessivi condizionamenti di prezzo, consente di avere margini interessanti per proseguire negli investimenti. E la prosecuzione degli investimenti è fondamentale per la rigenerazione (si veda punto C.).
  1. Realizzato un prodotto di successo (nella sostanza e nella forma), l’Impresa deve pensare che quello non è un punto di arrivo, ma è un punto di immediata ripartenza. Non ci si deve mai fermare: la vita continua, e la vita è rigenerazione continua, innovazione continua
  2. Una volta messa a punto la produzione – attraverso la cura degli aspetti A. e B. e la loro rigenerazione continua C. – è necessario portare nel migliore dei modi questi prodotti al mercato, curando tutti gli aspetti che possano favorire la relazione con i potenziali clienti: si possono creare prodotti eccellenti, ma se non si entra in relazione con il mercato è un fallimento. La relazione con il mercato è composta da moltissimi ingredienti; a titolo meramente esemplificativo: la comunicazione, l’immagine, la distribuzione, la capacità di creare empatia con l’acquirente, il capire esattamente che cosa vuole il cliente ed offrirglielo nel migliore dei modi, l’offrire al cliente di più di quanto si aspetti (creando un effetto “wow”), il creare un contesto di variabili di contorno che favorisce la relazione, …
 
  • Facciamo ora il caso di un Paese, nello specifico avendo in mente l’Italia.
Per essere più puntuali nelle considerazioni soffermiamoci sul problema dello sviluppo di business nell’ambito internazionale. Nel contesto internazionale – come possiamo immaginare – la situazione diventa particolarmente complessa, perché si vive in una competizione severa. Si è detto che la migliore soluzione sarebbe di evitare la competizione, per non venire massacrati sui prezzi. Da questo punto di vista – per essere corretti – dovremmo distinguere fra due grandi categorie di prodotti:
  • I prodotti appartenenti alla macro area delle “5A”: Alimentazione, Abbigliamento, Arredamento, Arte, Ambiente/territorio
  • I prodotti “altri”, della manifattura (meccanica di precisione, o altri…)
 
Bisognerebbe tenerli distinti, perché mentre i prodotti “5A” in qualche misura nascono già in parte fuori dalla competizione (il “made in Italy” in questi mercati ha una USP non imitabile, perché fa parte della specificità culturale italiana, riconosciuta nel mondo), i prodotti “altri” non godono di alcuna protezione preventiva, e quindi concettualmente dovrebbero vivere naturalmente in competizione.
Analizziamo per questi prodotti il posizionamento – problemi ed opportunità – sui “quattro ingredienti della vita”:
 
  • A. e B.   Sulle componenti basiche – struttura e sovrastruttura – l’Italia se la cava bene, e spesso molto bene. Non dipende tanto dall’Italia come Paese, ma dagli Italiani, dalla loro storia e cultura (per le 5A), e dalla loro genialità (per i prodotti “altri”). Quindi si comincia bene, ma purtroppo non si prosegue altrettanto bene…
 
  • C.    Il primo grosso problema nasce dallo sviluppo, dalla capacità di fare evolvere in continuazione, di innovare ed andare oltre, soprattutto per i prodotti “altri”, che sono quelli che nascono più in competizione. Per evitare la competizione – si diceva – bisogna obbligatoriamente innovare, certamente i processi – riuscire a fare le stesse cose, possibilmente meglio, spendendo di meno – ma anche i prodotti; bisogna andare oltre, e riuscire in continuazione a stare davanti alla concorrenza imitatrice. Però per fare questo bisogna investire, molto ed in continuazione. E purtroppo in Italia ciò è poco praticato, perché la modestissima dimensione delle aziende porta con sé debolissima finanza. E’ impensabile affrontare il futuro con le piccole dimensioni. Le grandi dimensioni sono obbligatorie da questo punto di vista, ed è necessario che le aggregazioni, fusioni – o soluzioni similari – vengano favorite con tutti i mezzi da chi ci governa. Ma ciò non accade; e la conseguenza di questa cultura micro-individualistica è drammatica: le Imprese non riescono più a differenziarsi a sufficienza, patiscono maledettamente la competizione (fra l’altro la Globalizzazione ha portato a prezzi impraticabili), e ci sono poche alternative rispetto alla dismissione delle attività. Ribadiamo: la battaglia per vincere sui mercati esteri (con margini interessanti), passa forzatamente per la capacità di fare di fare prodotti migliori e più innovativi rispetto ai competitors. Passa per l’evitamento della competizione. Passa per le grandi dimensioni, da favorire a tutti i costi, e la capacità di finanziamento continuo.
Oltre al tema degli investimenti, si intravvede anche un’altra causa dell’incapacità di rigenerazione dell’Italia, cioè di un’Italia che ripropone sempre se stessa, allo stesso modo. Ciò soprattutto negli ultimi 20 anni. E’ come se il vecchio spirito imprenditoriale che ha svegliato l’Italia nel secondo dopoguerra, si fosse un po’ spento. Passando da una logica di indipendenza ad una di dipendenza, è come se la gente avesse rinunciato a partecipare, è come se l’iniziativa di intraprendere non venisse più considerata come un’opzione interessante. Il dipendente italiano, forse perché troppo frequentemente remunerato con compenso fisso e non in logica di partecipazione (con parte variabile, come spesso avviene all’estero), ritiene che il problema della necessità di sviluppare pensieri rigeneranti non lo debba riguardare. Ciò sia nell’ambito privato che in quello pubblico. E tutto ciò rischia di rendere le cose italiane meno interessanti. Un esempio: il numero di turisti a Roma. Parigi ha il doppio dei turisti di Roma. Ci si domanda come sia possibile: la storia e le testimonianze e la bellezza di Roma non ha uguali. Ma Roma è sempre uguale a se stessa. E’ sufficiente visitarla una volta … due volte. Parigi (ma anche Londra) ha una capacità rigeneratrice infinitamente superiore: il desiderio di rivisitarla (ma anche Londra) non si interrompe mai.
In definitiva la moderata spinta alla rigenerazione, per mancanza di investimenti, o per mancanza di mentalità rigeneratrice, rappresenta il primo grande problema dell’Italia; ma non necessariamente il più grosso.
 
  • D.       Il problema più grosso da risolvere ha a che fare con il “quarto ingrediente della vita”: la relazione con gli altri, cioè con il mercato. E dall’analisi di questi problemi e delle fenomenologie che li caratterizzano, traspaiono i grossi problemi dell’Italia, peraltro già visti all’inizio: l’assenza di un potere politico che funzioni per il bene del Paese, e l’inconsistenza di un potere sociale (non esiste un “popolo Italiano”, che senta l’appartenenza e l’orgoglio dell’Italianità, ed agisca nel rispetto del Paese).
Continuiamo con gli esempi del protagonismo sul mercato internazionale, nostra fondamentale ancora di salvezza. Questo punto riguarda la capacità di “portare il nostro prodotto al mercato” – esportare i nostri prodotti, importare turismo –  ottimalizzando tutti i momenti della relazione.
L’esportazione dei prodotti dovrebbe essere agevolata:
  • da una immagine dell’Italia all’estero interessante, seria, affascinante; per certi versi lo è, ma purtroppo è accompagnata anche da un’immagine degradante relativamente alla serietà sociale e politica prevaricante
  • gli investimenti comunicazionali a favore dell’Italia all’estero sono inesistenti: non è rivendicato alcun protagonismo (gestito secondo un progetto). C’è totale casualità, e quando si dovesse notare qualcosa, prevale il non coordinamento e la disconnessione
  • assenza di agevolazione alle esportazioni, ed assenza di servizi di supporto efficaci. La burocrazia italiana, che deve giustificarsi in tutta la sua drammatica ridondanza, mette in continuazione “bastoni tra le ruote”, ed impone tempi ed efficienza inaccettabili (imprese che escono dall’Italia, delocalizzando tutto per evitare questi problemi, sono all’ordine del giorno).
L’importazione di turismo dovrebbe essere agevolata. Le prospettive di business – dirette ed indirette – potrebbero essere esaltanti. In Italia abbiamo avuto nell’ultimo anno 45 milioni di turisti; non pochi, ma il business potrebbe essere enormemente superiore se si pensa che nello stesso periodo la Francia ne ha avuti 85 milioni. Quale è il senso, se si tiene conto che conto che l’Italia è depositaria dei ¾ del patrimonio artistico del mondo, ha città d’arte ineguagliabili, ed ha un territorio di una bellezza esaltante?
Le spiegazioni non sono difficili: oltre alla capacità di proporre rigenerazioni e nuove stimolazioni (senza negare la storia, ma interpretando sempre meglio il futuro), di cui si è già fatto cenno, nei paesi che ci stanno vicini (non solo Francia, ma anche Germania ed UK) c’è una capacità di ospitare il turista che è significativamente superiore alla nostra: educazione civica, rispetto del territorio, gentilezza e correttezza relazionale, ospitalità, ordine, pulizia, cura.  L’etica della gente, di gente evoluta, che si sente cittadina ed “azionista” di un Paese a cui tiene, diventano veri punti di forza.
Per contro in Italia l’incultura relazionale ed il non sentirsi cittadino:
  • in parte dipendente dalla nostra storia (rapporto con lo Stato critico da sempre)
  • in parte dipende dalla cultura basica più modesta (la bassa cultura porta l’attenzione su se stessi, ed ostacola la relazionalità)
  • ed in grossa parte dipendente dall’assenza storica di  Governi che avessero realmente in progetto lo sviluppo del Paese, che riuscissero a trasmettere fiducia nello Stato, ed in definitiva voglia ed orgoglio di appartenenza
porta gli individui a non sentire il territorio come proprio, a non curarlo e rispettarlo, ad adottare nei confronti delle persone non note comportamenti di sufficienza, se non “furbi”, a fregarsene dell’etica e del rispetto, ad approfittare dell’estraneo per vantaggi impropri (dal tassista, al ristorante, all’albergo,…).
Tutti comportamenti, questi, che ostacolano nel modo più impietoso la relazionalità. E senza relazionalità, come si diceva, non c’è vita.
 
 
SOLUZIONE: AFFRONTARE I  VERI PROBLEMI CAUSALI
 
In Italia, il problema dei problemi pare proprio la degenerazione persistente del potere politico. Non pare così difficile individuare la direzione del bene del Paese, e da questo punto di vista non è pensabile che ci siano più di tanto idee contrapposte. Si possono fare tanti decaloghi per risolvere i problemi, ma per certo l’Etica (rispetto – da tutti i punti di vista – delle persone che stanno attorno a noi) deve rientrare in tutti questi, come pure la Sostenibilità che ne è “figlia” (rispetto delle persone che verranno) , in tutte le sue declinazioni: culturale, sociale, economico ed ambientale.
Fra le tantissime cose, Etica Governativa significa per certo anche:
  • non agire per mai interessi propri o della propria parte politica, mai e poi mai, con impegno solenne e comunque con sorveglianza severissima, pena la “decapitazione” immediata
  • avere una visione per il Paese, un progetto di lungo periodo
  • puntare prioritariamente alla coesione, che significa creazione di un popolo che si senta appartenente al Paese, e che ne senta l’orgoglio dell’appartenenza; fra le priorità, a questo fine, una forte attenzione all’educazione civica della popolazione, in tutti i gradi di scuola
  • evitare allungamenti sociali, aiutare tutti i segmenti che hanno bisogno a non rimanere indietro, creando loro opportunità di partecipazione; ciò riduce i conflitti sociali, migliorando il clima relazionale
  • garantire giustizia sociale, pari opportunità, onore al merito: ciò implica – fra le altre cose –  lo smantellamento totale ed immediato delle infrastrutture burocratiche inutili, create solo per ottenere vantaggi di parte. Ne conseguirebbero giovamenti incredibili sul piano della spesa, degli snellimenti decisionali, della velocità di crescita (che dipende massimamente dalla velocità decisionale)
  • dismettere la contrapposizione politica, retaggio maschilista della lotta per il potere di parte, e non per imporre visioni differenti per la soluzione dei problemi
  • favorire la dialettica, la discussione, il confronto costruttivo, la disponibilità relazionale. In altri termini favorire un approccio decisamente più femminile, con donne che facciano le donne, e che non imitino nei modi e nei toni il volto grezzo della miopia egoistica maschile, come capita che ora avvenga. Donne che usino – come sanno fare le vere donne – l’etica, la capacità relazionale, il rispetto degli altri, che accettino le diversità culturali come contributo di crescita, che usino la capacità olistica della parte destra del cervello – come solo loro sanno fare – per tenere in considerazione tutte le variabili quando si prendono le decisioni.
Dovremmo anche avere Governanti che sanno capire il momento storico che stiamo attraversando a seguito della Globalizzazione, non più frenabile, e del crescente potere del Capitalismo e della Finanza. Si tratta di un potere talmente forte che sovrasta e condiziona a piacimento l’intera economia di un Paese, a maggior ragione di Paesi di media “corporatura” come l’Italia. E stante il fatto che questo potere è destinato ad aumentare, è necessario che i Governanti sappiano capire prospetticamente quali azioni cautelative porre in atto. Si parlava poc’anzi dell’importanza dell’Impresa di diventare grande e forte per poter disporre di risorse per progettare meglio un futuro da protagonista attivo. Bene, discorso analogo a maggior ragione vale per i Paesi: nella competizione mondiale, in epoca di Globalizzazione condizionante, e di potere crescente a livello mondiale del Capitalismo e della Finanza, anche i Paesi devono diventare più forti, per mantenere la propria autonomia, e sviluppare i propri progetti. L’Italia è troppo piccola: i Governanti lo devono capire, e devono favorire la creazione di un vero Stato Europeo, con una struttura Federale forte che abbia il controllo di tutte le aree basiche della sostenibilità, pur rispettando le specificità storico culturali e vocazionali dei singoli territori.
Questo significa avere vera visione del futuro, ed agire per tempo per il benessere della Popolazione.
Beh, se succedesse questo avremmo un Governo di cui andare orgogliosi, e costruiremmo un Paese di cui andare orgogliosi, con un fortissimo senso di appartenenza e di partecipazione. Ci sentiremmo dei veri azionisti di una cosa nostra, da difendere. Forse ci verrebbe voglia di investire energie, di essere meno “dipendenti” menefreghisti e rinunciatari, e vorremmo essere più imprenditori/conquistatori, con voglia di sfidare gli altri ed il futuro.
Si creerebbero delle basi vere per rimettere a punto un migliore rispetto delle “quattro regole della vita”, soprattutto con riferimento alle seconde due: voglia di vivere e di rigenerarsi, voglia di entrare in relazione con gli altri (con i mercati), con l’etica giusta, per generare nuova vita.
Per la verità la componente etica si sta già in parte impossessando della gente, indipendentemente dal Governo. Per le istruzioni molto più elevate – rispetto al recente passato – dovute ai cambi generazionali, e con il contributo di internet 2.0, la capacità critica della gente è molto cresciuta in questi ultimi 10-15 anni. Il terreno per la crescita del senso di cittadinanza sarebbe quindi già in buona misura fertile. Un nuovo Governo che impostasse le strategie descritte avrebbe un grande successo, perché soddisferebbe esattamente le attese di questa nuova popolazione.
Al contrario invece ora capita che questa nuova capacità critica – capace finalmente di capire – sta alimentando arrabbiature potentissime, ed insopportabilità della situazione, stante l’immobilità di fatto dei Governanti.

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