Mr Selfridge oggi non aprirebbe Selfridges
Settembre 2014. Ho appena finito di vedere le due stagioni di Mr Selfridge (in Italia è stata mandata in onda solo la prima), la serie televisiva britannica che racconta la nascita, nel 1909, e i primi anni di vita del grande magazzino Selfridges tra intuizioni geniali, duro lavoro e vita privata dei protagonisti, lo stesso Selfridge e alcuni suoi collaboratori, dal direttore del personale all'ultimo dei garzoni.
Mr Selfridge coglie lo zeitgeist della rinnovata centralità del commercio nel processo economico.
Il dettagliante Harry G. Selfridge non ha mai goduto della notorietà del coevo industriale Henry Ford, il modello T è del 1908. Nella scala sociale degli affari, il commercio al dettaglio è stato per molto tempo qualche gradino sotto quello della produzione. In origine, prima del dominio sul vapore di James Watt e della catena di montaggio di Taylor, il Capitalismo è stato un capitalismo di mercanti ed erano gli artigiani a stare in basso. Oggi, dopo Sam Walton e con Jeff Bezos la distribuzione sta riconquistando il prestigio perduto.
La serie è divertente e molto istruttiva per chi si occupa di commercio. Per molti aspetti è più efficace di molte ore di formazione, più piacevole per gli allievi e più economica per le aziende. Molti dei concetti introdotti da Selfridges sono ormai patrimonio comune e quasi banali, anche se la drammatizzazione aiuta a comprenderli meglio che se fossero esposti in un'aula di formazione con l'ausilio delle slide di power point.
Il suo merito è aver collocato storicamente e socialmente la nascita e l'introduzione di certi concetti. Harry G. Selfridge ha inventato non solo la shopping experience ma ha iniziato a pensare in termini di libero servizio, non ha inventato la profumeria al piano terra come oggi vediamo in qualunque grande magazzino in giro per il mondo, ma l'ha introdotta nella vittoriana e bigotta società londinese copiandola dalla Francia.
In nessun corso di formazione s'insegna la caducità di quello che si espone, le circostanze che ne hanno suggerito l'applicazione e decretato il successo. Nei corsi di formazione, nei master e nelle università esistono due modi di proporre certe nozioni:
Il Category Management dai Babilonesi ai nostri giorni, sono corsi in cui s'illustrano i concetti commerciali come fossero verità assolute, indeformabili dal tempo, storicamente ed economicamente vigenti sotto qualunque cielo.
Lui ha visto la luce: in questi si racconta che si viveva in tempi bui finché improvvisamente un imprenditore geniale ha avuto un'idea geniale e ha avuto un successo strepitoso.
Pertanto nei corsi di entrambi i generi si discute pochissimo di fallimenti, per evitare il rischio di scoprire che le stesse ricette (pratiche, metodi et similia) possono anche portare al fallimento e non solo al successo. Si parla altrettanto poco di storia per non alimentare l'idea che anche le ricette attuali sono destinate a diventare obsolete.
Chi si occupa di formazione, da buon commerciante, non ha alcun interesse a ricordare che ciò che insegna è destinato ad invecchiare, se non fino a quando non ha altro da vendere.
Non sorprendiamoci se dopo aver investito tempo e denaro per inculcare l'idea che certe pratiche sono eterne, rivelate una volta e definitivamente fino all'Apocalisse, le persone interpretano l'inadeguatezza di quelle pratiche come fosse appunto l'Apocalisse.
Parafrasando Laozi: Ciò che il commerciante chiama "fine del mondo”, per i clienti è un negozio diverso.
Ha ancora senso parlare di category management?
Ha ancora senso parlare di Category management? Un metodo che formalizzava, quasi trent'anni fa, una serie di pratiche suggerite da uno scenario competitivo fatto di superfici commerciali che ambivano a diventare la meta definitiva per ogni genere di acquisto?
Oggi si sta realizzando l'incubo di Harry G. Selfridge: la parcellizzazione degli acquisti fra canale digitale e category killer. Preferiamo battezzare il fenomeno con nomi consolatori: multi/cross canalità, showrooming che ce lo renda meno temibile. Anche gli yankee chiamavano Charlie i vietcong. L'esito di quella guerra è noto. La causa della sconfitta fu l'escalation, l'applicazione reiterata di un metodo, supponendo che la sua applicazione in dosi sempre più massicce avrebbe condotto alla vittoria finale. Si vincevano battaglie secondo i propri canoni, ma l'avversario combatteva una guerra diversa.
Lo stesso accade nella competizione con il canale digitale. Chi ha vissuto la nascita dell'e-commerce e ne ha visto l'evoluzione ha potuto osservare che per un sito che diventava leader di mercato, centinaia gli erodevano i margini, come le termiti dei cartoni animati svuotavano l'albero dall'interno, sicché molti alla fine non hanno ottenuto non dico il successo ma nemmeno la serenità sperata. Il successo nell'e-commerce non ha arriso, per ora, a chi replicava in maniera aggressiva le logiche del retail fisico nella dimensione digitale, ma a chi ha sviluppato modello di business originali: Amazon e eBay sono dei marketplace, hanno raccolto sotto le proprie ali migliaia di piccoli e meno piccoli commercianti; Yoox e le vendite flash sono sostanzialmente degli stockisti, vendono ciò che i canali tradizionali non trattano. In sintesi, i colossi della distribuzione affrontano con strategie convenzionali competitor non convenzionali, che.
Vi ricorda qualcosa? E soprattutto la cosa vi rassicura?
In questi giorni una nota rivista di consumo critico ha pubblicato la classifica annuale dei retailer più convenienti. Con una pressione promozionale da climi tropicali e la marca commerciale sempre più invadente ha ancora senso una simile classifica? Leggendola, mi sono ricordato di quando bambino giocavo a tennis con molto impegno, mentre il mio avversario, appena più grande, pensava piuttosto a fare colpo sulla biondina fra lo sparuto pubblico di vicini di casa che ci guardava. Io magari vincevo, lui mangiava il gelato con la ragazzina.
Ancora una volta certi retailer appaiono più interessati a giocare fra di loro che a pensare ai clienti.