Alice Pizza si espande, apre nuovi store e, come sistema, genera più di 120 milioni di euro di ricavi all’anno. Analizzando i dati però, scopriamo che non è tutto oro quel che luccica. Quali prospettive ha la catena nostrana per il futuro?
In RetailWatch monitoriamo con grande interesse lo sviluppo di modelli in catena nel mercato della ristorazione, occupandoci anche di dare uno sguardo più ampio sulle prospettive che tale mercato offre.
Qui, ad esempio, abbiamo analizzato i numeri di Dispensa Emilia mentre qui, invece, ci siamo dedicati al modello di business adottato da 12 OZ, azienda specializzata nel segmento della caffetteria americana sulla falsariga di Starbucks.
Nell’articolo a questo link, poi, ci siamo soffermati sul fenomeno inflattivo che ha riguardato la ristorazione, mostrando prezzi aumentati anche del +80% e +100% in uno spettro temporale decisamente ridotto, ovvero dal 2020 al 2024.
All’interno dell’approfondimento dedicato a Dispensa Emilia, parliamo inoltre delle problematiche, generalmente condivise da tutti gli operatori della ristorazione, che minano la profittabilità delle aziende del settore.
Anche Alice Pizza, infatti, nonostante lo sviluppo importante, presenta dei numeri non sempre confortanti che analizziamo di seguito.
Quali sono le performance di Alice Pizza?
La Redazione di RetailWatch ha esaminato due bilanci, ovvero quello di Alice Pizza Negozi Srl e quello della controllante, la Alice Pizza SpA. Partiamo dando uno sguardo alla prima.
Alice Pizza Negozi nel 2023 ha generato ricavi per 43 milioni di euro circa, cifra in aumento del 26% sull’anno precedente ed ha chiuso l’esercizio con una perdita di 1.31 milioni di euro, in riduzione rispetto ai -3.4 milioni del 2022.
Il margine sui consumi è pari al 69.5% dei ricavi, tendenzialmente stabile se paragonato a quello dell’anno precedente. Si tratta di un dato abbastanza in linea con la merceologia che tratta la catena e, comunque, nella media del settore.
Di seguito esponiamo alcune voci di bilancio, inserendo la percentuale di incidenza sui ricavi:
- Costi per godimento di beni terzi, 11%.
- Costi per servizi, pesano oltre il 10%.
- Totale costi del personale, 31.4%.
- Totale ammortamenti e svalutazioni, 16%.
- EBITDA, 16%.
- EBIT, 0.15%.
I parametri di business sono generalmente in miglioramento perché l’EBIT è passato dai -2.7 milioni del 2022 ai 64.659€ del 2023.
Come per tutte le catene di ristorazione però, il costo del lavoro rappresenta quasi un terzo dei ricavi, pesando in modo significativo sul conto economico. Anche le voci “godimento beni di terzi” e “costi per servizi” tipicamente hanno valori rilevanti e, infatti, nel caso analizzato, se combinate incidono più del 20% sui ricavi.
C’è da dire che il peso degli ammortamenti sta diminuendo negli anni ma rimane, comunque, importante e di certo non aiuta a rendere il business profittevole.
Se guardiamo i dati della controllante Alice Pizza SpA, senza scendere troppo nel dettaglio, ci basta constatare che a 5.96 milioni di euro di ricavi, in crescita di oltre il 50% sul 2022, corrispondono perdite per circa 2 milioni di euro.
Qui l’EBITDA è positivo per 2.1 milioni di euro circa mentre l’EBIT, visto il peso di ammortamenti e svalutazioni, è negativo per 1.66 milioni. Sui ricavi della controllante, i costi del personale arrivano a pesare addirittura il 41%.
Quali prospettive per il futuro?
Alice Pizza è una realtà che ha chiuso il 2024 con 9 locali all’estero e 208 in Italia. Nell’ultimo anno ha aperto 25 nuove pizzerie generando, come sistema, oltre 120 milioni di euro di giro d’affari. In tutto ciò, ha effettuato 190 nuove assunzioni. Circa metà dei suoi locali sono poi gestiti in forma diretta mentre l’altra parte è in franchising.
Il processo che consiste nel rendere catena la ristorazione recentemente è molto in voga. Si tratta di un modus operandi che nasce negli Stati Uniti, Paese i cui cittadini riconoscono alle catene una maggiore capacità di poter assicurare standard elevati di sicurezza alimentare.
Per un americano medio, i locali in catena rappresentano la certezza di poter mangiare quantomeno prodotti conosciuti, senza rischiare di imbattersi in piatti di dubbio gusto.
Non a caso, gli USA sono la patria di McDonald’s, Burger King, Wendy’s, Pizza Hut, Panda Express, KFC e decine di altri imperi dell’ away from home.
In Italia, però, piatti di alta qualità sono disponibili diffusamente sia presso i ristoranti in catena sia in quelli indipendenti. Questa condizione porta le catene che operano nel nostro Paese a doversi scontrare con un’abbondanza di offerta la quale, generalmente, tende a tradursi in un abbattimento dei prezzi. Pensiamo, ad esempio, al caso emblematico di Napoli, dove è possibile acquistare una buona pizza per 4€ o poco più.
Sicuramente la recente spinta inflattiva ha causato un incremento dei prezzi anche nel nostro Paese ma il principio enunciato non cambia.
In sostanza, la forte concorrenza di qualità rende difficile sviluppare cifra d’affari e margini a valore che coprano sempre tutte le spese, lasciando anche un congruo utile.
Molti modelli di ristorazione, infatti, sia nostrani che esteri, quando aprono in Italia fanno i conti con un contesto dove fare profitto non è affatto difficile. Lo abbiamo documentato analizzando i casi citati nell’incipit dell’articolo.
Il consiglio, per modelli di ristorazione con menù tipicamente italiani, è quello di andare all’estero, in mercati con offerte alimentari di minore qualità proposte magari a prezzi elevati. In tali scenari si può sicuramente sperare di ottenere di più, in termini di redditività, dal proprio business, utilizzando la qualità elevata come vantaggio competitivo.