Qual è il rapporto Q/P della carne nella GD?

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Qual è il rapporto Q/P della carne nella GD?

Maggio 2015. Contemporaneamente alle ricerche sul rapporto qualità/prezzo dell’ortofrutta commercializzata dalla Distribuzione Moderna, Amagi ha affrontato anche il tema delicatissimo della comparazione qualitativa delle carni vendute sempre nei medesimi canali.
Abbiamo dunque acquistato, il 9 Marzo 2015, il prodotto più semplice e “banale”: un Petto di Pollo  Intero in 7 super e ipermercati (CONAD, Carrefour, Coop, Esselunga, U2, Auchan, Iper) dell’hinterland milanese e demandato a ricercatori qualificati la misurazione dei principali parametri valutativi.
Il dato più interessante di questa innovativa ricerca, mai realizzata prima in Italia, è la discrasia esistente tra l’ “approccio tecnico-scientifico” e l’ “approccio avanzato di marketing”. La qualcosa apre per il top management dei grandi retailer una notevole problematica dal punto di vista strategico. Illustreremo questa tematica attraverso una serie di quesiti preliminari a cui forniremo una risposta teorica e successivamente empirica.
I fornitori di elaborati di pollo in Italia sono pochissimi. Le varietà animali selezionate per l’allevamento si dice siano altrettanto poche. Insomma il tutto lascerebbe presupporre l’esistenza di standard tipici di un prodotto “industriale” e seriale (lasciando ovviamente da parte il “biologico” e altre nicchie specialistiche).
Si possono cogliere dunque delle significative differenze qualitative in un’offerta così controllata e standardizzata?

  1. La risposta tecnica del controllo di qualità  è stata NO. Alla luce dei dati ottenuti con procedura scientifica, tutti i campioni acquistati rientravano nella “norma”: una conclusione scontata. Ci mancherebbe altro che insegne prestigiose come quelle citate fossero fuori norma!
  2. La risposta del marketing avanzato è molto più vaga e incerta. Infatti, pur rientrando tutto nella norma, i parametri con cui un cliente/consumatore dotato di sufficiente background scientifico potrebbe giudicare la qualità “percepita” rivelano una varianza apprezzabile.
 
Esiste quindi un problema relativo alla reale capacità di valutazione della qualità da parte del pubblico?
  • Può la carne di pollo (così come le altre) essere un elemento distintivo per un’ insegna?
  • Se sì, la domanda è “in che modo”?
  • Se no, può esistere e mantenersi un consistente divario di prezzi tra i vari punti di vendita?
  • E infine i prezzi riflettono la qualità?
Partiamo dunque da alcuni presupposti:
È il cliente in grado di giudicare almeno con una parziale obiettività, la qualità del petto di pollo? 
Risposta – Certamente no, un cliente non è certo in grado di misurare in termini comparativi(!) gli indicatori basilari quali:
  1. la carica batterica,
  1. il PH,
  1. la luminosità e il colore rosso e giallo,
  1. la ritenzione di acqua,
  1. la perdita di peso in cottura
  1. la tenerezza (resistenza al taglio)
Anche se gli fossero comunicati non li comprenderebbe e non saprebbe elaborarli.  Dunque il suo giudizio ha natura prettamente soggettiva e partendo da stimoli percettivi più o meno accurati e corretti, attraverso i processi cognitivi, porterà alla memorizzazione di breve e di lungo periodo delle sue impressioni-valutazioni. L’idea ricorrente del “consumatore sempre più informato, sempre più consapevole” è un’astrazione stereotipata a uso della retorica della business community.
Possiamo ricondurre il tutto all’analisi sensoriale, ovvero, banalmente al “è più buono – è meno buono”? 
Anche in questo caso la risposta è NO. Nessuno assaggerebbe in simultanea e solo per trarne un giudizio, sette petti di pollo, bolliti senza sale, per lo stesso periodo di tempo, in modo da condurre un esperimento controllato. Il giudizio di un normale cliente si riferisce sempre a una carne condita e cucinata (bene o male) a modo proprio, in periodi diversi, in diversi contesti psicologici. La situazione è molto differente dall’assaggio più immediato e facile di una ciliegia o di una mela. Dunque, la memorizzazione di un’esperienza di consumo della carne, riferita a un’insegna e poi raffrontata con un’altra, a distanza di tempo, contiene fatalmente dei grandi bias, studiati e ben illustrati dalle moderne teorie di Behavioral Economics.
Possiamo pensare che l’atteggiamento di un individuo (soggetto a tutti gli stimoli del marketing di prodotto e di retail), verso il prodotto confezionato sia applicabile anche a un prodotto altamente deperibile come la carne?

La risposta è SÌ. Sappiamo bene che l’atto d’acquisto di un prodotto confezionato è soggetto al criterio di “perfezione”. La maggior parte dei clienti non compra una lattina lievemente ammaccata o un vasetto con l’etichetta graffiata! In che modo reagisce dunque alla “presenza di piccoli spandimenti emorragici” visibili in un petto di pollo? Quali reazioni percettive suscita il grasso in evidenza di volta in volta “giallastro”, “perlaceo”, “rosato” o “bianco”?
Nostre precedenti ricerche dimostrano che i clienti odierni sono negativamente impressionati dal pesce con la testa, oppure che preferiscono i mitili “rosso-arancione” a quelli color “giallo-crema” (femmine i primi, maschi i secondi, di fatto senza differenze gustative) …
In breve possono questi dettagli, questi particolari apparentemente trascurabili, influenzare le decisioni d’acquisto o meglio il giudizio aprioristico circa la “bella o brutta” carne di un insegna?

La risposta è SÌ. Un solo petto di pollo con uno spandimento emorragico sarà l’ultimo a essere acquistato e certamente non inciderà sulla rotazione del prodotto. Il 30% dei petti difettati nella vasca refrigerata creerebbero un problema. Non è un caso che Melinda abbia creato il proprio marchio Melasì per risolvere la problematica analoga delle piccole lesioni da grandine cicatrizzate. Eppure, nonostante una perfetta campagna pubblicitaria, Melasì, pur in un periodo di depressione economica, non segna la crescita straordinaria, come dovrebbe discendere dalla presunta “razionalità del consumatore”. Dunque, l’ulteriore domanda  è: “Qual è il ritorno derivante dal mettere qualche petto di pollo, pur perfettamente nella norma, ma lievemente difettato, nel banco assieme agli altri?” Probabilmente un retailer americano non si porrebbe il problema perché cucinerebbe questi prodotti per le sue preparazioni gastronomiche “grab-n-go”. Nel nostro caso la questione è aperta.
 
Veniamo ora a un parametro importante: il WHC, ovvero la capacità della polpa di trattenere acqua e quindi di restare “succosa”. Date le nostre rilevazioni il quesito è: tra un 73% e un 61% c’è differenza? Il 12% in più di Water Holding Capacity  è significativo dal punto di vista qualitativo? E se divenisse il 18%? O il 25%. Ricordiamo sempre che in un prodotto confezionato le differenze fisico-organolettiche sono ridotte a minimi impercettibili (pensiamo ai bastoncini di pesce o a un hamburger) e  che i consumatori hanno ben presente questo concetto.
Prendiamo la perdita di peso in cottura (con i relativi, ben noti effetti di “restringimento”, questi sì ben percepiti dalla consumatrice!). Tra il 25% e il 19% esiste una differenza apprezzabile? E, ancora, se invece del 6% fosse del 12%?
Consideriamo ora la tenerezza: Tra 6 e  13 Newton di resistenza al taglio del coltello Warner Bratzler esiste un divario percepibile?
Tuttavia il ragionamento si complica ulteriormente quando si cerca di combinare assieme tutti questi parametri qualitativi. Il buyer solitamente decide la combinazione  ideale di questi  standard da contrattare con il proprio fornitore, ma chi ci assicura che questo criterio collimi con quello del tutto soggettivo e mutevole della maggioranza dei clienti? E soprattutto come stabilire se nell’insieme il petto di pollo dell’insegna Viola è superiore a quello dell’insegna Gialla (sempre agli occhi del cliente/consumatore)?
Noi allo scopo di avviare una riflessione abbiamo introdotto un criterio basato sui parametri misurati. Definito il Minimo (Min) o il Massimo di un attributo, a seconda che sia negativo o positivo, abbiamo diviso questo valore per quelli di ogni insegna. In questo modo si è ottenuto un coefficiente compreso tra 0 e 1. Moltiplicando questi coefficienti e estraendo la radice quadrata per ogni insegna si è ricavata la media geometrica o Indice di Qualità Complessiva
I risultati delle 7 insegne sono i seguenti:

Da questo punto di vista le differenze esistono e sono evidenti. Dovremmo concludere che, sia pur entro le norme di legge, non tutto il petto di pollo è uguale? Ovviamente se cambiasse sensibilmente la pesatura di un coefficiente, perché diciamo (a caso) la tenerezza è al palato dei consumatori più importante del WHC, allora l’ordine potrebbe mutare. Insomma secondo una strategia volta alla massima customer satisfaction i  criteri  “a priori” del buyer dovrebbero essere corretti dall’apporto del marketing e delle sue ricerche di mercato sulle preferenze del consumatore.
Tuttavia questa è solo una parte della storia poiché nella scelta della carne entra in gioco anche una componente informativa. Il nostro cliente ideale avrebbe allora potuto raccogliere,  dalle etichette dei nostri campioni i contenuti che seguono, ordinati in questa tabella tabella (I numeri non corrispondono alle lettere precedenti!):

Sono utili queste informazioni? Se SÌ

  • perché non sono complete per tutte le insegne?
  • Perché l’insegna 3 che ha preparato il prodotto il 9 marzo o prima mi assicura 7 giorni di scadenza e l’insegna 5 che lo ha preparato lo stesso giorno pone la scadenza a 2 giorni?
  • Perché la 4, la 6, la 7 non indicano la scadenza?

Si potrebbe pensare allora che questa e le precedenti questioni trovino soluzione nella fissazione dei prezzi al kg. Invece anche da questo punto di vista non v’èra una coerenza percpibile.
Il range dei prezzi spaziava, infatti, da 5,50 € a 9,68 €, ovvero un 76% in più! per un prodotto che si vorrebbe ovunque “tecnicamente” identico (cioè entro le norme). Inoltre non esisteva alcuna correlazione dimostrabile tra indici di qualità e prezzi.
Si apre allora un dilemma:

  • qual è il pricing strategicamente corretto?
  • Proporre un 5,50 € assicura davvero la piena soddisfazione di una propria clientela attenta al prezzo? Oppure si tratta di un inutile sacrificio di un prezioso margine di profitto per l’azienda?
  • Vendere il petto di pollo a 9,68 € è dimostrazione di abilità commerciale? O costituisce un insensato rischio di perdere clienti?

Dato che numerosi indizi fanno supporre che nelle carni rosse la questione sia ancor più complessa, la soluzione è interessante, ma non può certo essere trovata nelle fumose chiacchiere convegnistiche.  Servono nuovi tipi di ricerca metodologicamente rigorosi e accurati nella misurazione dei fatti e soprattutto la consapevolezza di una estrema complessità del sistema dei prezzi e del loro rapporto con la qualità oggettiva e percepita.
 

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