Giugno 2019. Gaetano Aiello, Accademia italiana di economia aziendale sostiene: “Bisognerebbe esportare il Retail Design italiano, quello vero. Se lo avessimo fatto nel secolo scorso avremmo evitato le brutte copie di prodotti italiani che vengono commercializzati nel mondo”. Sacrosante parole, professore, bastava come hanno fatto i francesi, abolire i campanilismi e unire in questo progetto pubblico e privato. Ma non è andata così. Siamo ancora in tempo?
L’Università non demorde e predica come nella Facoltà di Economia di Parma il Saper Fare: alla didattica affianca la ricerca e produce servizi alla società, reddito e cultura. Dicono Davide Pellegrini e Cristina Ziliani: “Il nostro mantra è: practice, poi practice e ancora practice”.
Bel mantra, non è vero?
Mettiamo il fattore umano in tutti i touch point
“Bisogna collaborare – fa loro eco Sigurdur Thorsteinsson di Design Group, azienda internazionale basata anche a Milano, che esporta gran parte del suo design thinking, pensieri tutti italiani, ben inteso. “Oggi ci sono troppe informazioni, troppe idee, è necessario filtrarle e non lasciarsi abbandonare all’idea che il primato sia della tecnologia. Senza l’uomo, le sue idee, le sue intuizioni, le sue correzioni, la tecnologia sarebbe limitata. Più la tecnologia avanza più il fattore umano cresce. Per operare oggi è necessario capire il contesto e facilitare la creazione di valore puntando all’efficienza e a risultati scalabili. Mettiamo le persone in tutti i touch point”.
Far crescere la qualità, produrre valore
“Il packaging oltre a essere uno strumento di protezione del prodotto è uno strumento di mktg, è un venditore silente. È decisivo nel segnalare la qualità intrinseca – dice Beatrice Luceri dell’Università di Parma. Ricordiamoci sempre che le persone sono vere e proprie macchine emotive che pensano e vivono di emozioni. Le ricerche di neuromarketing passano dalle esperienze cognitive a quelle emotive e i loro risultati aiutano a vincere le resistenze al cambiamento”.
“Il pack condiziona il comportamento di acquisto, soprattutto quando crea valore -concorda Federico Casotto di Designa Group.
Differenziare e differenziarsi per evitare la competizione di prezzo
“Il reparto dell’ortofrutta e il packaging nell’ortofrutta si prestano benissimo alla differenziazione dell’insegna e del prodotto – sostiene Guido Cristini dell’Università di Parma. Soprattutto se pensiamo a una diversa costruzione della customer experience, basata su:
. Novità,
. Varietà,
. Esperienza dei 5 sensi,
. Qualità e quantità desiderate,
. Informazioni,
. Naturalità,
. Servizio e risparmio di tempo.
Cristini si chiede anche: “La GDO è in grado di produrre emozioni in questo reparto? Per farlo deve concentrarsi sull’aumento delle varietà puntando alla esclusività, qualificando stagioni e territori, ad esempio, spiegando i valori nutrizionali di ciascun prodotto in vendita. Fino ad arrivare alla risposta alla domanda: qual è il grado di maturazione del prodotto nel pack che mi porto a casa”.
“Certo che si può fare -sostiene Silvia Bellini dell’Università di Parma. Ci sono già degli esempi. Ricordiamoci il trend di lungo periodo sulla sostenibilità a 360° che deve coniugato alle informazioni che devono essere accessibili, decodificabili, riducendo le barriere all’acquisto”.
Il packaging è in via di evoluzione dice Esselunga
“Sono d’accordo con voi – afferma Francesco Mandolini, Food security manager di Esselunga – ricordiamoci però che le nostre aziende devono operare su volumi importanti e pensando al pack e alle sue evoluzioni noi dobbiamo coniugare la tutela del consumatore con la sostenibilità aziendale. Parlando di plastica ricordiamoci che la eliminiamo o la sprechiamo. Esselunga negli ultimi anni ha cambiato le confezioni dell’ortofrutta passando dal polistirolo al polipropilene risparmiando 172.000 kg di materie prime e riducendo la CO2 di 391.760 kg”. “Ma su alcuni prodotti la confezione è irrinunciabile – allerta Vittorio Brinati, buyer di Esselunga: pensiamo ai carciofi. Il problema, comunque, è migliorare il rapporto del venduto nell’ortofrutta nei nostri superstore che oggi è al 29% di sfuso e 71% di confezionato, ricordo che il layout del supermercato si apre proprio con lo sfuso, sia ambiente sia refrigerato. Le confezioni poi, come avete detto informano e hanno un ruolo, nell’informazione, esiziale”.
E restiamo, allora, sulle informazioni: “La blockchain – dice Andrea Ausili di GS1 Italy, basa tutto sulle informazioni che devono essere:
. immutabili,
. integre,
. sicure.
E qui entra il ballo il codice a barre e la sua evoluzione che permette di tracciare gli eventi intercorsi nel prodotto, dal campo alla tavola”. Fino ad arrivare al databar di GS1Italy che aiuta, ad esempio, nella lotta allo spreco, coniugando il prezzo dinamico con le promozioni (leggi qui).
Per arrivare alla sostenibilità del punto di vendita, a 360°
“Quando si parla di innovazione – sottolinea Vittorio Ramazza di Coop Italia – si rischia di rincorrere solo la tecnologia. E invece – gli fa eco Maria Grazia Cardinali dell’Università di Parma – la questione è ben più complessa e l’innovazione va vista nelle componenti orizzontale verticali contemporaneamente. Innovazione, a proposito di retail, deve fare rima con sostenibilità e quindi con tutta la filiera del negozio e tutti i suoi fornitori”.
È una conclusione, quella di Cardinali, di frontiera, complessa, che richiede provvedimenti di lungo periodo. Ed è questo proprio il bello e l’Università può dare il suo contributo.
Fonte: Retail Design, RetailLab dell’Università di Parma, 13 giugno 2019.